sabato 27 Aprile 2024

Archeologia in Afghanistan: la memoria della vita di uomini e donne nella storia è di nuovo a rischio. Ecco come è nata l’idea di ArchaeoReporter

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AFGHANISTAN – Mentre il Blackhawk dell’esercito degli Stati Uniti si leva in volo, con una squadra Medevac – Evacuazione Feriti, in una mattina afghana di 10 anni fa, provo a ricordare a me stesso perché da quel giorno, sporgendomi con la telecamera dal posto del mitragliere, mi nacque l’dea che anche l’archeologia aveva bisogno dei suoi “reportage”, e non solo di – pur bellissimi – documentari. Perché volando sul nulla del distretto di Farah, un nulla meraviglioso, fatto di sabbia, roccia e tracce di corsi d’acqua stagionali, ci si rendeva conto come quel nulla fosse tutto, fosse vita di uomini e donne, fosse storia, fossero millenni di racconti che l’archeologia – meglio di altro – poteva svelare

AFGHANISTAN E ARCHEOLOGIA – IL VIDEO REPORTAGE:

Di colpo appare Qala’eh Kafir, il Castello dell’Infedele, stupefacente fortezza appesa ad uno sperone di roccia, a dominare tutte le piste tre oriente e occidente, da Herat, giù fino a Kandahar. Ci giravamo intorno perché lassù c’era qualcuno, e bisognava capire chi fosse quel qualcuno che osservava tutto. Quindi adrenalina, ma anche un altro genere di emozione, quella di un’immensità della storia nel pieno di una guerra infida e impossibile, come abbiamo visto in questi giorni. Non da sentirsi come il generale Patton di fronte alle rovine romane in Nordafrica, sia chiaro. Ma un senso di inadeguatezza e di incapacità di cogliere quel racconto, che in un altro Paese sarebbe stato il classico sito patrimonio dell’umanità UNESCO, con mille suggestioni per il turismo di massa. Lì attorno c’era invece, e resta, solo povertà, violenza e una paura costante con cui convivere.

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Qala’eh Kafir, il Castello dell’Infedele, provincia di Farah, Afghanistan (di Angelo Cimarosti)

Ecco il BlackHawk sulla città di Farah, centomila anime, indigenza, tanta violenza. Insieme agli americani qui c’erano gli italiani. Ci sono stati per molti anni prima di ritirarsi, con i talebani che non avevano mai smesso di costituire un pericolo per la popolazione e per le forze dell’Isaf, “la coalizione” a cui l’Italia contribuiva con militari, mezzi e risorse economiche.

E di nuovo a dominare, un’immensa fortezza, la cittadella di Alessandro, uno dei sistemi difensivi del re macedone e dei suoi successori, mura impastate con terra, fango, imponenti, punteggiate da torri, altre fortezze interne, e enormi spiazzi. Una visione impressionante, l’archeologia che parla e fa comprendere l’importanza della strategia, dei luoghi difesi, dell’immenso sforzo per costruirli e mantenerli efficienti nei millenni, fino ad ora. Anche questo immenso monumento ancora vivente, con i relitti di cingolati sovietici della guerra che, in effetti, segnò il declino dell’Armata Rossa. I cittadini di Farah la frequentavano, quasi fosse una sorta di “passeggiata”, prima che i talebani lo riducessero – di nuovo – a deposito di armi. Come volete che non lasci un segno a chi lo guarda come testimonianza di vite, di soprusi, di conquiste, dolori, rotte della seta e dei commerci… “Come vorrei che tutti lo vedessero”, per questo non staccavo mai con la telecamera, sempre accesa.

Tra un viaggio e l’altro, tra un volo tattico e l’altro, poi ci sono entrato nella cittadella di Alessandro, con i nostri Lagunari, nel 2011. Nel video riguardo il servizio di allora, scritto al volo e speakerato con qualche imprecisione, pur di mandarlo in fretta online. È l’archeologia della mia memoria, in questo caso (il video è qui sopra).

Poi tra un volo e l’altro, tra un racconto e l’altro, tante altre storie, a terra, perché è lì la vita. Dall’alto vedi tutto chiaramente, giù è diverso. S’incontrano vecchi, bambini e bambine, soldati, donne, sguardi. Tanti racconti che bene o male, spesso male, poco attrezzato, un giornalista prova a riportare e a condividere. Ma vedevo quei monumenti, e volevo raccontare anche loro, come prova tangibile della storia e della vita di un popolo, di tanti popoli, di tanti uomini e donne. E non a caso tra gli obiettivi della furia talebana in passato, come ci può ricordare la celebre storia della distruzione dei Buddha di Bahmiyan.

Ecco perché l’idea di ArchaeoReporter nasce da un volo operativo, in zona di guerra, sul Farah Rud, il fiume di Farah. Raccontarlo ora, con gli Afghani abbandonati da tutti e in balia a soprusi e violenza, fa ancora più male. Raccontare le tracce degli esseri umani nella storia, quindi, è un dovere.

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