Fa sorridere l’ultima scoperta del Ministero della Cultura italiana, che si è reso finalmente conto che per gestire i nostri musei sarebbe opportuno coinvolgere dei “manager”.
Fa sorridere per due ragioni; la prima è il ritardo, la seconda l’inesattezza con cui viene posta la questione.
Partiamo dal ritardo: al di là del termine inglese, il manager è colui che “gestisce” e “coordina” uno o più flussi di lavoro, integrando il lavoro delle persone con il lavoro delle eventuali ulteriori risorse di cui dispone l’organizzazione (tempo, macchinari, denaro, ecc.).
Bene. Sotto questo profilo abbiamo impiegato circa mezzo secolo per comprendere che per coordinare le persone che vengono poste a capo dei musei, magari, e il magari andrebbe sottolineato, potevano essere selezionate persone che avessero in qualche modo studiato e fatto esperienza in questo campo.
Persone che, per dirla proprio fuori dai denti, avessero sicuramente una conoscenza approfondita del funzionamento dei musei e della cosa pubblica, ma che avessero una conoscenza altrettanto utile legata ai modelli di gestione e alla capacità di dare all’organizzazione una vita unitaria, stabilendo regole e modalità di lavoro in grado di far remare tutti i marinai nella medesima direzione. Soprattutto, dare incarichi a persone che avevano tutte quelle competenze che gli consentivano di disegnare quale fosse la direzione da intraprendere.
Come il ragazzino alle medie, un giorno il nostro Ministero si è svegliato di soprassalto, rendendosi conto che la sveglia suonava da ore inascoltata, auspicando che un qualunque aiuto esterno venisse in soccorso per sopperire al ritardo. Mi ci vuole un manager!
Anche se con ritardo, questa nuova notizia potrebbe essere accolta con piacere, se ci fosse però un po’ di chiarezza sul ruolo che il manager dovrebbe avere nella gestione di un museo.
Ed è qui che l’inesattezza rende il ritardo ancor più evidente. È il già citato ragazzino delle medie che salta sulla bici e per andare più veloce prende una strada sbagliata, che sebbene non sia proprio nella direzione opposta, comunque porta ad una strada più lunga, rendendo sempre più notevole il ritardo.
Qui purtroppo è necessario scendere un po’ più nel dettaglio, perché altrimenti il “manager” rischia di essere la nuova parola vuota dell’anno ed è l’ultima cosa di cui l’Italia dei musei abbia bisogno.
Un manager, dicevamo, altro non è che una persona che, per competenze e per esperienza, è in grado di coordinare le attività di mezzi e di persone armonizzando l’intera macchina organizzativa per perseguire un obiettivo specifico.
Che significa tutto ciò nella pratica? Significa che il manager di un museo, che se vogliamo assumere un minimo di correttezza possiamo iniziare a definire un manager culturale e creativo, ha bisogno in primo luogo di un’autonomia strutturale (su personale, risorse, capitoli di spesa, ecc.), e poi ha bisogno di conoscere talmente bene la materia gestionale dei musei da poterne identificare delle traiettorie di sviluppo.
Fermarsi a dire “manager” è come dire “narrazione”. Manager di cosa? Manager “per” cosa?
Gli obiettivi politici indicati dal ministero lasciano molte lacune, se non il fatto che i musei debbano far cassa. Ma far crescere i ricavi dei musei non è la stessa cosa di far crescere i ricavi di una municipalizzata in ambito energetico.
In quell’ambito, va bene applicare delle regole che sono proprie del management tradizionale, e trovare delle modalità per incrementare i ricavi riducendo i costi, o perseguendo economie di scala sul lato dell’offerta e bilanciando con attenzione una serie di dinamiche finanziarie correlate ai flussi di cassa, al funzionamento ordinario, all’approvvigionamento e all’erogazione dei beni e/o servizi, e sviluppando servizi a valore aggiunto integrativo gestendo il tempo di investimento ed il tempo di ricavo.
Con i musei la cosa è un po’ meno “standard” e c’è bisogno di qualcuno che abbia in ogni caso contezza delle specifiche regole economiche che caratterizzano la “cultura come bene economico”.
Quindi, già sul far cassa stiamo in difficoltà. Ma poi? Vogliamo i musei come un sostituto più piacevole dell’erario o vogliamo far crescere davvero la fruizione culturale volontaria e la capacità di creare quelle esternalità positive che la gestione di un sito culturale può determinare?
La differenza tra un manager e un manager culturale e creativo è la capacità di visione al di là delle strette regole della normale amministrazione aziendale.
Un esempio sul caso archeologico può chiarire questo aspetto.
Se si chiede ad un manager di organizzare uno scavo archeologico, il manager tradizionale (quelli che sono cresciuti in imprese di prodotti o di servizi non coerenti con il bene culturale) avrà una ed una sola priorità: ridurre i costi, non essendo previsto un ricavo dallo scavo. Al massimo cercherà dei finanziamenti e cercherà di coinvolgere qualche impresa privata per sponsorship. È questo il suo lavoro, in fondo. Un manager culturale e creativo, invece, dovrebbe fare un’altra cosa, vale a dire chiedersi: vale la pena “scavare”?
Al di là di quello che si pensi, è una domanda che, scientificamente (sotto il profilo dunque prettamente archeologico) ed economicamente (sotto il profilo economico, culturale, sociale e in genere di sviluppo territoriale) presuppone una serie di scelte ponderate tutt’altro che banali.
Una domanda per rispondere alla quale è stato necessario un libro.
Perché bisogna riconoscere che al di là dei flussi monetari, esistono numerosissime dimensioni che vengono coinvolte da un’attività di scavo e ragionare esclusivamente sulla dimensione economico-finanziaria (che è poi il lavoro che viene solitamente richiesto ai manager) può essere riduttivo.
Dal punto di vista tecnico, insomma, tutti quegli elementi che nell’attività di impresa sono noti come esternalità, rappresentano invece delle dinamiche “interne” alle organizzazioni culturali.
L’incremento della qualità della vita del territorio, ad esempio, non è un caso fortuito ed indiretto dell’agire museale: è un elemento centrale. Quando si avvia un nuovo scavo, non è possibile immaginare che “l’eventuale incremento di partecipazione da parte dei cittadini alle attività archeologiche” possa essere un risultato indirettamente raggiungibile. Piuttosto è, e deve essere, un obiettivo specifico dello scavo in sé.
Se adesso non chiariamo quali siano le caratteristiche minime dei tanto millantati manager, e non chiariamo quali siano gli obiettivi verso i quali far tendere le organizzazioni loro affidate, allora stiamo perdendo tempo e denaro.
Una cosa che, in nome dei titoli di giornale, il ministero fa spesso e volentieri.
Quindi ben venga che il ministero si sia svegliato, anche se in ritardo. Ma guardi almeno il percorso, altrimenti ci troviamo nell’ennesima strada chiusa, costretti a tornare indietro, con tutti i cambi che al ministero questo comporta.