Il Multiverso (da non confondere con il metaverso) è una teoria che, sempre più negli ultimi anni, ha esercitato un crescente fascino sull’opinione pubblica. Esistono differenti ipotesi di multiverso, tutte scientificamente molto elaborate. Tra tutte, quella che ha però avuto una maggiore eco, per il suo aspetto narrativo estremamente interessante, è l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica, che come indicato dal National Geographic, è una teoria che descrive il comportamento della materia dal punto di vista matematico.
Di questa teoria, l’aspetto che maggiormente potrebbe risultare interessante per l’archeologia, è l’impianto narrativo: “l’esistenza di infinte Terre parallele, con linee temporali ramificate, o “realtà alternative in cui le nostre decisioni si sviluppano in modo diverso”.
È il concetto di sliding doors, e di altri innumerevoli prodotti editoriali e cinematografici.
Alla base, quindi, del Multiverso, c’è una domanda cui può essere estremamente affascinante rispondere: “cosa sarebbe successo se…” ed è una domanda che l’archeologia potrebbe usare per incuriosire le persone, soprattutto i target più giovani.
Perché se è sicuramente attrattiva l’idea di un personalissimo universo parallelo in cui tutto resta invariato e a variare sono soltanto le nostre scelte, ancora più potente, sotto il profilo anche soltanto prettamente narrativo, un’ipotesi in cui, guardando al passato, sia possibile immaginare come piccolissimi cambiamenti nella vita di singole persone avrebbero potuto generare una “storia”, quella collettiva, completamente differente.
Pur volendo relegare quest’ipotesi alla sola dimensione narrativa, è però chiaro che questa dimensione presenti più nessi con ricerche attualissime. Da un lato il “multiverso”, che pur se in modo differente, in ogni caso resta tema di ricerca; dall’altro le cosiddette teorie del caos, e quindi quelle teorie che studiano come piccolissimi cambiamenti (quali la vita di una persona comune), possano generare cambiamenti sistemici innumerevolmente più grandi.
Infine, ed è questa forse una dimensione che varrebbe la pena approfondire, un’ipotesi di questo tipo potrebbe avvalersi della grande fantasia delle intelligenze artificiali, e anche degli errori che tali intelligenze possono commettere.
Chiaramente, non si sta riproponendo di riscrivere la storia ad immagine e somiglianza dei cosiddetti prompt engineers, vale a dire coloro che si stanno addestrando per poter fare le giuste domande alle intelligenze artificiali.
Si tratta piuttosto di estendere l’idea generalmente accettata del ruolo dell’archeologia nel suo rapporto con le scienze e con la tecnologia in particolare.
Oggi, l’Archeologia è una disciplina che fruisce, e vale a dire è una disciplina che utilizza e applica le ricerche condotte in altri campi, per poter far tesoro dei risultati raggiunti in altri settori ed utilizzarli in vista di una maggiore conoscenza del passato.
Anche se mediante utilizzi non del tutto ortodossi, tuttavia, l’archeologia può partecipare in modo molto più attivo e costruttivo allo sviluppo di tecnologie, e così facendo, aprendo un ventaglio di prospettive molto più ampio, non solo per la disciplina nel suo complesso, ma anche per lo sviluppo delle carriere degli archeologi o dei futuri archeologi.
Oggi più che mai, il mondo della tecnologia ha bisogno di punti di vista differenti, che guardino alla tecnologia con una prospettiva diversa da coloro che sono in grado di realizzarla. L’Archeologia ha, in questo senso, una delle risorse più importanti per lo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale: la capacità di fare domande che non si limitino alla sfera meramente applicativa, ma che indaghino in profondità, come l’archeologia in fondo fa da sempre.
Non si tratta di inserire tra i servizi da fornire ai visitatori una realtà virtuale che trasforma il luogo visitato sulla base di possibili cambiamenti che sarebbero potuti avvenire nella storia. Questo è in un certo senso anche anti-archeologico, perché fornsice all’impronta narrativa un ruolo predominante sulle testimonianze concrete.
Si tratta piuttosto di inquadrare le modalità mediante le quali l’archeologia possa migliorare lo sviluppo delle nuove tecnologie, includendo degli elementi che, altrimenti, rischierebbero di restare inevitabilmente estranei allo sviluppo di quelle tecnologie che poi, una volta realizzate, l’archeologia necessariamente tenderà ad utilizzare.
L’equivoco della tecnologia applicata alla cultura. Un’occasione per l’archeologia