Un recente articolo apparso su “Il Foglio” commenta una ricerca che, avvalendosi di tecniche di archeologia molecolare, contraddice ricerche fatte in passato asserendo, sulla base dei dati raccolti, che il noto Principe d’Avorio, appellativo con il quale si intendeva indicare la persona che aveva raggiunto “il massimo picco di importanza sociale e ricchezza nella Spagna tra il 3200 ed il 2500 a.C. non sia un uomo, ma una donna.
Non è la prima volta che accadono episodi come questi, né tantomeno sarà l’ultimo.
Prima che però la questione gender possa prendere il sopravvento, c’è una considerazione di natura più generale che forse può essere utile inquadrare: il rapporto che l’archeologia può e, forse deve, strutturare con le nuove tecnologie.
Che archeologia e tecnologia vadano di pari passo è una condizione ben nota: dalla fisica avanzata, alla microbiologia, dalle rilevazioni satellitari (e ancor prima la aerofotografia) alla chimica e alla scienza dei materiali: i punti di contatto tra la disciplina archeologica e le cosiddette scienze esatte sono all’ordine del giorno.
Ed è quindi normalissimo che, con il mutare ed il progredire delle tecniche di indagine, emergano evidenze che smentiscano ciò che precedente era stato assunto come dato.
Si tratta di un elemento che per quanto scontato possa essere, evoca una serie di riflessioni che sono tutt’altro che banali.
La prima è, se vogliamo, di natura concettuale, e può essere impropriamente paragonata all’applicazione della teoria del caos alla storia della nostra umanità: per quanto alcune epoche del nostro passato siano sufficientemente documentate, per altre non è di certo da escludere la possibilità che i risultati di nuove indagini rese note da tecnologie differenti e più avanzate rispetto a quelle del passato possano generare enormi cambiamenti interpretativi.
Il punto di riflessione, a ben vedere, è che questa evidenza pare appartenere più al campo letterale che umanistico.
Condizione che, tuttavia, rappresenta un’anomalia se paragonata a tutti gli altri campi di ricerca ad oggi in essere.
Dalla fisica, all’energia, dalla matematica alla tecnologia, passando per l’ingegneria o la finanza, in tutte quelle discipline in cui esiste la possibilità di “trovare una chiave di volta” che modifichi in modo significativo una determinata visione del mondo, o una determinata legge, la ricerca che si concentra intorno a tale visione è tutt’altro che letterale, e raccoglie anche importanti investimenti di natura privata.
Nella grande corsa alle “batterie”, ad esempio, ci sono notevolissimi investimenti da parte di soggetti pubblici e privati volti a trovare un’alternativa al litio o al cobalto. Nella finanza sperimentale, ci sono corposi investimenti volti ad indagare una possibile correlazione tra le dimensioni fisiche del mondo e il comportamento delle azioni. Nell’ingegneria dei materiali, grandi interventi sono volti ad identificare eventuali comportamenti anomali da parte di alcune molecole al fine di poterne determinare utilizzi differenti rispetto a quanto in uso.
Nell’archeologia, invece, gli investimenti sono prevalentemente veicolati attraverso l’attività universitaria, e a dispetto della grande rilevanza che una potenziale scoperta possa avere sulla comprensione di parte della nostra storia, pochi sono i privati che vi si affacciano per poter partecipare economicamente e finanziariamente a tali indagini.
La motivazione più evidente che può venire alla mente, è che a differenza di quanto possa accadere ad esempio nel caso della scoperta di un nuovo materiale, una rilevazione che possa cambiare la storia non è commercialmente spendibile.
Ma accettare questa risposta significa assumere per vero che viviamo in una società in cui la scoperta di un modo più efficiente di ricaricare una batteria vale milioni e milioni di euro in più rispetto al riscrivere la storia.
La seconda riflessione aperta dalla vicenda della Regina d’Avorio, e più nel dettaglio del rapporto tra tecnologia e archeologia, ha a che fare con la spinta imprenditoriale. Anche in questo caso l’Archeologia rappresenta, in prima istanza, un’anomalia rispetto ad altre industrie o altre discipline.
Assunto che l’archeologia dialoga con altre materie di ricerca, il rapporto che si configura vede in genere la disciplina archeologica come un’estensione applicativa. Si fanno ricerche, si trova un’applicazione potenziale anche in archeologia, e si applica.
È invece raro il processo inverso: è raro, cioè, che le esigenze in ambito archeologico siano da stimolo per attività di ricerca in altri campi. È raro, in altri termini, che partendo da esigenze di natura archeologica possano nascere start-up che ricercano una tale proprietà dei materiali.
Si tratta di due casi, che presuppongono un punto di vista molto differente, e che tuttavia pare convergano verso un’unica conclusione: la necessità di consolidare il dialogo tra archeologia e altre discipline, non solo come materia da convegno, o come specializzazione successiva.
Si tratta di due mondi che, a differenza di molte altre dimensioni del nostro agire, non hanno ancora conosciuto un processo di integrazione: tra l’archeologia e il resto delle scienze (e delle tecnologie) vige un rapporto di fornitura. Stop.
Nonostante i grandi punti di interesse. Nonostante le grandi potenzialità, anche economiche e politiche, che potrebbero discernere dall’affermazione di una determinata tipologia di risultati scientifici.
Nonostante la possibilità di ridefinire la “storia”, che di certo non è cosa da poco.
Nonostante ci siano investimenti pressoché in ogni ambito dell’agire umano.
Una condizione che possiamo accettare, oppure iniziare a chiedercene il motivo.