giovedì 21 Settembre 2023

Archeologia e politica: favorire l’identità di un territorio senza retorica identitaria

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In una recente intervista, l’archeologa calmucca Maria Očir-Gorjaeva ha affrontato una serie di questioni legate alla Russia, partendo dalla propria innegabile competenza e declinando tali riflessioni secondo le proprie posizioni personali.
Da un lato, l’archeologa condivide pensieri che provengono dalla propria conoscenza storica (gli Stati Imperiali hanno una propria parabola, ecc.), dall’altro interpreta tali conoscenze alla luce della propria posizione personale che vede nell’indipendenza della regione a cui appartiene “una necessità storica”..

La relazione tra “costruzione identitaria” e discipline storico-archeologiche è ben nota da sempre, in modi che oggi tenderemmo forse a sottovalutare. Ricordo, nella nostra società, i famosi tentativi di “revisionismo” storico (termine utilizzato spesso in modo improprio), in cui la storia però, più che essere reinterpretata alla luce di nuovi documenti o di nuovi rinvenimenti, è stata “riscritta” di sana pianta. È il caso, ad esempio, dei trattati che nel corso dei secoli sono stati elaborati per attribuire illustri discendenze a luoghi del tutto privi di connessioni con passate civiltà.
È evidente quanto peso abbia una riflessione di questo tipo nel particolare periodo storico che stiamo attraversano, e quali implicazioni di carattere geopolitico tali affermazioni e gli espliciti riferimenti storici comportino.
Da tali vicende, che di certo richiedono grande attenzione per identificare ricostruzioni o attribuzioni artificiose e faziose, emerge anche un elemento che, al positivo, risulta spesso poco valorizzato e che rappresenta invece uno degli assi portanti dell’archeologia.

È vero, storia e archeologia possono “scrivere” o “riscrivere” il passato di un determinato territorio, e questa facoltà è ampiamente riconosciuta quando si tratta di preservare una verità storica e tutelarla da revisionismi ed estremismi di sorta.
Eppure, ben minore attenzione è posta all’aspetto più innovativo: la capacità che l’archeologia ha di identificare, comprendere e raccontare il passato di un determinato territorio, con l’obiettivo di incrementare l’autentico, e non manipolativo, senso di appartenenza da parte della cittadinanza.
Esistono ancora oggi territori in cui gli abitanti, in buona sostanza, ignorano il proprio passato, oppure prestano ad esso ben poca attenzione; e sono realmente pochi i programmi politici, tanto centrali quanto locali, che al di là di qualche circoscritta azione di valorizzazione relativa a musei o aree archeologiche, tengano realmente conto del valore che questa potentissima risorsa rappresenta per il nostro vivere civile: lo stimolo ad un senso identitario e, parallelamente, ad uno spirito comunitario.
Si tratta di una condizione che forse merita maggiore attenzione e, soprattutto, un maggiore intervento nel nostro Paese, soprattutto in un momento in cui la “riconquista dell’identità” rappresenta una domanda culturale piuttosto diffusa.
Accogliere tale necessità, in questo senso, potrebbe rappresentare una valida leva per ancorare i cittadini al proprio territorio, incrementarne il livello di attaccamento e decidere di partecipare, in una logica di “consequenzialità storica” al suo miglioramento nel tempo.
Questo elemento “temporale” è oggi completamente assente dalla maggior parte della vita quotidiana del nostro Paese: la storia del proprio territorio è demandata a poche lezioni durante il periodo scolastico o a convegni a cui vanno soltanto le persone che già sono interessate.
L’assenza di una conoscenza (e coscienza) diffusa della storia del territorio indebolisce drasticamente il rapporto che i cittadini hanno con la propria terra. Migliorare questo legame è invece un elemento essenziale, perché fortemente ancorato ad un concetto di comunità, che in questo particolare contesto appare sempre più affievolito.
Non si parla di ritornare all’autarchia, né tantomeno di invitare le persone in nome delle proprie origini a restare per sempre ancorati ad un determinato territorio. Né si tratta di stimolare una comunità a fronte delle potenziali forze alienanti di Internet e dei social network. Ancora, non si tratta di difendere l’identità di un territorio dall’invasore straniero o di tutelare a tutti i costi tali identità storiche opponendosi a qualsiasi forma di ibridazione.
Si tratta, piuttosto, di recuperare il lato “al positivo” del concetto di identità territoriale e storica, senza scadere in retoriche politiche, ma favorendo un rapporto intimo con i luoghi che abitiamo.
Si tratta di tutelare le identità territoriali, nella loro grande eterogeneità, e non assorbirle all’interno di un’unica semplicistica narrazione.
Elementi che meriterebbero, probabilmente, una riflessione non solo teorica, ma del tutto concreta e strutturale: l’istituzione di fondi volti a valorizzare l’identità territoriale, e divulgare tale identità non soltanto in una logica turistica, ma soprattutto rivolta alla comunità nella sua interezza.
Piuttosto che continuare ad utilizzare il passato come figura retorica per affermare propri personalissimi populismi, e piuttosto che affermare che la cultura sia anche di destra, sarebbe forse il caso di ammettere che la cultura è il modo con cui conviviamo, nell’arco della nostra esistenza, con la storia ed il futuro della nostra società e del territorio che abitiamo.
L’archeologia può fare tutto questo, se vogliamo. Ma vogliamo?

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