giovedì 21 Settembre 2023

Nuovo bando per direttori musei e fundrising: monetizzazione o sviluppo per il territorio?

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Un aforisma, attribuito a Gregorio Maranon, recita: La velocità, che è una virtù, genera un vizio, che è la fretta.

Al di là della sua efficacia, questa riflessione solleva una dimensione molto interessante che pone in luce come non sia tanto l’adesione ad un principio, ma la sua concreta implementazione a determinare la bontà dell’intento.

Definita in questo modo potrebbe sembrare una riflessione di natura teorica e invece, quel delicato rapporto tra velocità e fretta così ben evocato dalla citazione, ben si presta a descrivere uno degli elementi di valutazione espressi dal nuovo bando pubblico per concorrere alla posizione di direttore di alcuni dei più importanti Musei Autonomi del nostro Paese.

Come chiaramente emerge dalle premesse, il tema che è oggetto della riflessione ha un perimetro che potrebbe all’inizio sembrare non chiaramente definito. Si tratta invece di un elemento che, visto più da vicino, non solo ha contorni per definiti, soprattutto se si tiene conto delle sue manifestazioni più concrete e visibili, tra le quali possono rientrare proprio i criteri di valutazione per la selezione dei nuovi direttori dei Musei Autonomi.

Per partecipare a tale selezione, ogni candidato deve allegare il proprio curriculum da cui si possano desumere la sussistenza di “uno o più dei seguenti elementi”:

  1. esperienza professionale nell’ambito della tutela, della gestione e della valorizzazione del patrimonio culturale;
  2. esperienza professionale di direzione e/o gestione di musei e altre istituzioni culturali, comprendente attività di conservazione e valorizzazione delle collezioni, pianificazione delle attività, gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali;
  3. complessità delle attività e/o delle strutture gestite e risultati conseguiti;
  4. conoscenza delle collezioni e/o delle raccolte dell’istituto per il quale si è presentata domanda;
  5. esperienza nell’ideazione e nella realizzazione di progetti di comunicazione;
  6. esperienza nell’ideazione e nella realizzazione di progetti di ricerca fondi (c.d. fundraising);
  7. esperienza nella partecipazione ai consigli di amministrazione e/o comitati scientifici;
  8. esperienza nella predisposizione e attuazione di accordi con soggetti pubblici e privati;

Si tratta di un ventaglio di elementi sicuramente eterogenei e, per molti versi, condivisibili e che, tuttavia, non lasciano emergere in alcun modo la figura che si vorrebbe ricercare. Sicuramente la più completa possibile, e questo è chiaro. Ciò che non è chiaro è la gerarchia tra le varie componenti.

La figura che si spera proponga la propria candidatura, in altri termini, si inscrive in una logica di continuità o quanto indicato in questo avviso presuppone un grande cambiamento legato alle tipologie di direttori che potremmo avere in futuro?

Sarà più rilevante la conoscenza in termini di tutela e di partecipazione a comitati scientifici o sarà più rilevante un’esperienza gestionale, nell’ambito museale o non museale?

Una domanda non di poco conto: da anni, ormai, una sempre maggiore quota di professionisti sottolinea quanto sia importante dotare il nostro sistema museale di direttori – manager, che abbiano tuttavia una profonda conoscenza e competenza culturale.

Le indicazioni parrebbero andare verso questo tipo di ricerca: tra gli 8 elementi richiesti, capacità di ordine manageriale-economico sono sicuramente prevalenti.

Questa potrebbe essere sicuramente una buona notizia per il futuro dei nostri musei autonomi, ma ci sono alcuni elementi che vanno, senza dubbio, approfonditamente considerati.

Il primo elemento è la necessità di definire una strategia per il nostro sistema museale. Tale strategia può essere desunta, probabilmente, dal documento di indirizzo politico che il ministro Sangiuliano ha definito nelle fasi iniziali del suo mandato, ma in tale indirizzo, le indicazioni relative al Patrimonio Culturale, riguardavano principalmente la necessità di ridurre le concessioni a titolo gratuito, la volontà di incrementare i costi del biglietto di ingresso nei musei e l’importanza di mettere in vendita le immagini del patrimonio culturale.

Più dettagliate erano invece le indicazioni di quella che veniva definita come Priorità II – Valorizzazione, anche economica, del patrimonio culturale e promozione dello sviluppo della cultura che, tra gli altri, includeva i seguenti punti:  ampliamento dei circuiti integrati, prevedere il prestito a titolo oneroso delle opere d’arte, “assicurare il tempestivo svolgimento delle procedure di affidamento dei servizi aggiuntivi negli istituti culturali, anche al fine di incrementare le tipologie di servizi vendibili a terzi”, assicurare l’accessibilità, creare un Polo di conservazione digitale, creare un listino prezzi unitario per la cessione delle immagini e centralizzare tale servizio, creare un portale informatico in cui evidenziare e spiegare ogni diversa forma di sostegno pubblico, favorire lo sviluppo di azioni pubblico-private, e agire sulla Customer Satisfaction.

Il secondo punto su cui bisognerebbe ragionare è la definizione delle grandezze sulla base delle quali valutare l’operato dei direttori. Questo tema potrebbe essere considerato come un’applicazione del criterio precedente. Tale riflessione, tuttavia, è vera soltanto in linea teorica.

Per quanto gli obiettivi debbano essere definiti sulla base di una strategia, e per quanto le grandezze di valutazione dovrebbero essere il riflesso degli obiettivi, va tuttavia ricordato che, allo stato attuale, i nostri musei presentano ancora dei sistemi di rilevazione dei dati piuttosto novecenteschi, nella maggior parte dei casi affidati ai concessionari dei servizi aggiuntivi che registrano, in buona sostanza, il numero di visitatori, le categorie e il numero di biglietti erogati, gli scontrini del bar e del bookshop e se un visitatore è italiano la regione di provenienza, o il Paese di provenienza se straniero.

Rileggere le differenti richieste espresse dal Bando dei Direttori alla luce di questi elementi, definisce un po’ meglio il punto da cui questa riflessione questa è partita.

Storpiando la citazione iniziale potremmo dunque dire che: “l’attenzione alla capacità economica dei Musei, che è una virtù, genera un vizio che è la monetizzazione”.

Più che di sfumature, dunque, si tratta di vere e proprie “lenti” con cui si guarda al fenomeno della valorizzazione del nostro Patrimonio Culturale e che, in alcuni casi, possono comportare differenti visioni su come implementare concretamente tale valorizzazione, portando potenzialmente, all’assunzione di scelte che potrebbero, in virtù della monetizzazione dei Musei, persino togliere ricchezza al territorio, piuttosto che incrementarla.

Ma ritorniamo al bando.

Per potersi candidare, come si legge dall’avviso, basta avere una o più delle caratteristiche elencate: il che, alla luce delle espressioni politiche riportate, e in associazione alle attività adottate sinora dal Ministero, potrebbe non escludere la presenza di direttori il cui percorso di direzione sarebbe prevalentemente segnato dalla necessità aumentare i ricavi dei Musei, e vendere servizi a terzi.

Di nuovo, elementi senza dubbio estremamente rilevanti e positivi se applicati con buonsenso, ma che se applicati con leggerezza rischiano soltanto di emulare in modo poco coerente con la nostra cultura (in senso generale ed in senso specifico) dei modelli di Museo applicati a livello internazionale, con particolare riferimento al mondo anglosassone.

Per comprendere ancor più nel dettaglio come quelle che sembravano essere delle minime sfumature possano in realtà generare impatti così distanti nel mondo reale si pensi, ad esempio, al concetto di fundraising nell’ambito culturale.

In ambito culturale ci sono molti modi per poter “raccogliere fondi” ognuno dei quali, oltre a perseguire l’obiettivo dichiarato, persegue obiettivi paralleli che, in alcuni casi, sono altrettanto importanti del finanziamento in sé.

L’esempio più semplice è il crowdfunding. Quando si ricorre a questa tipologia di strumento, in buona sostanza, non solo si agisce con l’obiettivo di ricevere finanziamenti, ma si agisce anche per comprendere se il progetto, il prodotto o il servizio che si intende realizzare abbia un mercato di riferimento. Analogamente, quando il fundraiser si avvicina a singoli soggetti o a piccoli gruppi omogenei di soggetti pubblici o privati, al di là degli aspetti tecnici può agire ragionando da un lato sul breve periodo, e dall’altro costruendo una relazione consolidata con i soggetti, progressiva e durevole nel tempo.

Così come nel caso del crowdfunding, anche queste ultime interazioni hanno lo scopo di ricevere maggiori fondi per i Musei. Cambia però la dinamica e la relazione che il Museo, come soggetto di interesse economico all’interno del contesto territoriale di riferimento decide di instaurare con cittadini, imprese, investitori e altri soggetti.

Tassello dopo tassello il perimetro della riflessione diviene sempre più evidente: obiettivo economico dei Musei dovrebbe essere l’attivazione di processi di sviluppo dell’economia territoriale, agendo sia sul lato della domanda sia sul lato dell’offerta ponendo le basi per una creazione di relazioni da consolidare nel medio periodo. Diversa sarebbe invece la gestione delle attività finalizzate ad incrementare la capacità dei Musei autonomi di attrarre finanziamenti di breve periodo.

Anche in questo caso, le due dimensioni potrebbero sembrare sovrapponibili a molti, ma sono invece profondamente distanti. Sviluppare un’ipotesi di fundraising di lungo periodo implica la realizzazione di attività di relazione, di confronto con le famiglie notabili del territorio, di sviluppo di partnership progressivamente più forti con imprese ed investitori. Un’azione di relazione che nel tempo dovrebbe portare il Museo (non il Direttore) ad essere uno degli interlocutori privilegiati della cittadinanza. Sviluppare un’azione di breve periodo implica una tipologia di relazione molto differente: non la costruzione di un percorso, ma l’implementazione di logiche spot, che massimizzino il risultato sia per il Museo sia per chi partecipa finanziariamente alle attività.

Il quadro che emerge meriterebbe forse un maggiore spazio all’interno del dibattito pubblico perché, approfondendo meglio queste tematiche, appare ben chiaro che i temi trattati sono tutt’altro che sfumature.

Sembrano tali soltanto ad un occhio poco allenato, poco abituato a riflettere realmente sul valore dell’economia all’interno della dimensione culturale. I “cinesi” sono tutti uguali soltanto per coloro che non hanno mai vissuto in Cina, o che non hanno molti conoscenti nell’est del mondo e spesso definiscono “cinesi” persone che provengono da differenti nazioni. Allo stesso modo, “sviluppare il valore economico della cultura” può sembrare un fenomeno unitario agli occhi di chi per decenni ha condotto una carriera in un clima in cui il denaro era un nemico dell’aulica cultura. Non essendo abituati a riflettere su temi di questo tipo, non riescono a capire la grande distanza che c’è tra lo sviluppo del territorio attraverso la valorizzazione della cultura, e la valorizzazione monetaria dei musei, confondendo così Bangkok con Qiqihar.

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