L’archeologia legata alla Prima guerra mondiale rappresenta sicuramente l’esempio più efficace di come gli archeologi possano essere utili nell’integrare la storia scritta sui documenti ufficiali, raccolta dalle testimonianze dirette e dall’enorme mole memorialistica di politici, ufficiali e soldati. Se le attività di ricerca in Francia, per esempio attorno alle Somme, rappresentano i casi di studio più importanti, anche l’Italia inizia ad avere esempi di conflict archaeology interessanti, sia pur affrontati in modo diseguale tra regione e regione, tra soprintendenza e soprintendenza.
Un giovane studioso, Alberto Donadel, in collaborazione con l’archeologo Nicola Cappellozza, ha finalmente affrontato un titolo che nel panorama editoriale italiano ancora mancava, con Archeologia della Grande Guerra (Ravizza Editore) il primo libro che coglie un panorama vasto su questo tema. Non si tratta, è bene dirlo subito, di un manuale, anche se l’approccio è scientifico. L’archeologia dei conflitti necessita probabilmente di codificazioni accademiche più ampie nel nostro paese, per poter finalmente giungere a corsi universitari specifici. Sarebbe l’ora, ci si sta avvicinando, e un volume come Archeologie del Contemporaneo di Giuliano De Felice, uscito sempre quest’anno per Carocci, va proprio in questa auspicata direzione.
Nel campo dell’archeologia della Grande Guerra un ruolo importante in Italia è coperto dalla figura di Franco Nicolis, direttore dell’ufficio beni archeologici della Soprintendenza di Trento, che non a caso ha scritto una pagina introduttiva a questo volume (mentre la prefazione è del direttore del Museo storico italiano della Guerra, Francesco Frizzera, e una nota è di Francesca Bertoldi, che a Ca’ Foscari insegna al corso di laurea in Conservazione dei Beni Culturali, a riprova che questo titolo suscita molto interesse nell’ambiente). Nicolis ci dice che di un “manuale” di archeologia della guerra mondiale non c’è bisogno, per gli stessi motivi che sosteniamo anche noi: l’archeologia dei conflitti in genere non è un’altra archeologia, è “archeologia” in senso compiuto. Il metodo quello è, e non cambia, può essere applicato alla protostoria, all’archeologia classica, a quella medievale. Certo, in alcuni casi si avvicina all’archeologia del paesaggio, basti pensare alle sterminate tricee in alcune zone d’Italia e d’Europa, in altri casi ha una forte componente antropologica, e qui guardiamo alla cosiddetta “arte da trincea”, altre volte s’interseca all’archeologia della produzione, pensiamo all’industrializzazione spinta per le munizioni o all’immenso sforzo logistico per approvvigionare eserciti mai così numerosi nella storia umana, se si esclude il secondo conflitto mondiale, l’unico paragonabile. Insomma, l’archeologia delle scatolette di cibo ci può raccontare molte cose. Se ci pensiamo, come ci ha ricordato anche Daniele Manacorda in altre occasioni, non c’è proprio bisogno di inventarsi “nuove” archeologie per applicare il metodo archeologico alla contemporaneità.
Tuttavia, come ricorda lo stesso Nicolis, l’approccio archeologico alla Grande Guerra (e a quelle successive), non può non tener conto di questioni etiche molto sensibili, in primo luogo quella dei caduti. Si scava in trincee, in tunnel e rifugi, in fosse comuni. Che contengono talvolta resti umani e oggetti personali. Le famiglie di questi caduti hanno spesso ancora una memoria tramandata dei loro antenati, fotografie, testimonianze dei più anziani. E altrettanto spesso queste memorie fanno parte di un senso di appartenenza sia famigliare che di comunità più allargate, paesi, vallate, a volte quartieri. Stiamo parlando di “ieri”, al massimo dell'”altroieri”. Un vero e proprio “campo minato etico” , ben presente agli archeologi fin dall’articolo di Nicholas Saunders, che in Antiquity (volume 76, 291, 2002) tracciò un perimetro essenziale per chi si occupa di archeologia dei conflitti (Excavating Memories, archaeology and the Great War 1914-2001), giustamente citato da Nicolis stesso.
Ecco il senso “contemporaneo” di questa archeologia, che il libro affronta: il fronte etico, legislativo (bene dirlo, tutt’altro che univoco), quello di cacciatori di cimeli (benignamente denominati “neo-recuperanti”) spesso in buona fede, a volte con ben pochi scrupoli. In questi casi non stiamo parlando di salvatori di “preziose testimonianze dei nostri antenati che altrimenti verrebbero disperse”, la frase più utilizzata in questi frangenti, ma di persone che distruggono i contesti nei quali gli oggetti, che ora sono in tutto e per tutto dei reperti archeologici, si trovavano. E, come sa qualsiasi studente al primo esame di archeologia, la distruzione di un contesto significa la perdita di informazioni.
SULL’ARCHEOLOGIA DELLA GRANDE GUERRA:
Che informazione può dare una ricerca archeologica rispetto a quella di un raccoglitore di cimeli? Gli esempi in Italia sono già molti, e sono trattati ampiamente nel volume, al confronto con casi di studio internazionali.
Attraverso le fonti, e questo è un bel caso di studio, si è arrivati all’identificazione del luogo di cattura del “battaglione dimenticato” .Mentre il Regio Esercito era in ritirata nell’infausto ottobre 1917, oltre 400 soldati vengono circondati dalle truppe austriache, e gettano di tutto dai pendii del monte prima di essere catturati. Decine di elmetti, fucili, baionette, e altri oggetti dei bersaglieri furono ritrovati dove i documenti dicevano fossero stati abbandonati. Quindi ricerca sui documenti, e ricerca coordinata sul territorio. Con un obiettivo scientifico. Ed eccoli ora, con la storia del battaglione, al Museo della Grande Guerra di Pontebba, a narrare a tutti quella vicenda. E non in un mercatino di cimeli o in qualche salotto a parlare solo dell’oggetto in se stesso, svincolato da qualsiasi collegamento con gli altri, e dalle storie personali dei loro possessori.
Oppure le ormai celebri indagini di Punta Linke, a 3.000 metri nel parco dello Stelvio, o l’identificazione totale o parziale di caduti dispersi in vari settori del fronte. A questi approcci si può collegare lo scavo archeologico che ha permesso di ricostruire in dettaglio un’azione offensiva italiana al valico del Menderle, sul Pasubio. Solo unendo con uno scavo scientifico i reperti, gli elmetti, le pinze tagliafili, i resti umani ritrovati, si è potuto quasi “vedere” in diretta i soldati alla conquista della trincea, strisciare sotto i reticolati, mettersi in posizione di difesa, subire l’attacco dell’artiglieria austriaca che, per la tragica ironia della sorte, stava usando pezzi italiani catturati. Tutto riemerso in modo drammaticamente chiaro dal buio dell’oblio. Questi tre soldati ignoti ora, se non ancora un nome, hanno la loro parte di storia descritta nel dettaglio, ed è una storia di coraggio e di sfortuna. Nulla di più etico che restituire una storia e non un semplice elmetto Adrian da mettere in bacheca.
SULL’APPROCCIO CORRETTO DEI VOLONTARI ALLO STUDIO E SALVAGUARDIA DELLE TRINCEE:
Il volume, riccamente illustrato, scientificamente strutturato, scritto non accademicamente, è probabilmente il miglior libro che chi si interessa di Grande Guerra possa leggere per ampliare la propria visione al di là delle storie scritte, ufficiali e non, e una delle migliori testimonianze del valore dell’archeologia applicata al contemporaneo. Il lavoro di Alberto Donadel e le schede di Nicola Cappellozza sono una base solida su cui costruire una coscienza e per lanciare stimoli alle amministrazioni regionali, comunali, alle soprintendenze (che iniziano nei casi migliori ad avere grande attenzione per l’argomento, mentre alcune mantengono una posizione più pilatesca) e, soprattutto, ai tantissimi appassionati che, collaborando con gli studiosi, possono fare molto di più che “raccogliere cimeli”. Possono raccogliere storie, e contribuire a raccontarle con metodo scientifico e per l’intera comunità. E fare la differenza.
Alberto Donadel (a cura di Nicola Cappellozza) – Archeologia della Grande Guerra. Ravizza Editore, 2023.
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