C’è stato un tempo in cui gli Osservatori Culturali erano una delle principali priorità politiche. Si discuteva di indicatori, di proxy, di parametri di valutazione, di raccolta dati, elaborazioni.
È stato un periodo in cui la conoscenza delle dinamiche economiche, culturali e sociali attivate dal Patrimonio Culturale presente in un dato territorio appariva come una Pietra Filosofale, in grado di trasformare in oro ogni dato, ogni preferenza, ogni visita ad un museo.
Poi è successo che la maggior parte delle informazioni disponibili erano prevalentemente costituite dal numero di biglietti venduti, e il massimo della profilazione poteva essere condotto attraverso la tipologia di riduzione che veniva applicata.
Il grande entusiasmo si è quindi esaurito nel misurare il misurabile, nell’identificare quelle variabili che, senza ombra di dubbio, venivano già misurate, perché non c’erano fondi tali da poter costruire delle nuove fonti di rilevazione, perché non c’erano le adeguate tecnologie, perché non c’erano le competenze necessarie.
Tante ragioni che hanno fatto però sfiorire l’interesse sul tema prima che gli Osservatori Culturali potessero realmente fornire una conoscenza aggiuntiva e concreta, con il risultato che oggi, spesso, non fanno altro che rielaborare e replicare informazioni rese disponibili dai software di biglietteria dei musei, o realizzare (o commissionare) ricerche campionarie.
Nel frattempo l’importanza dell’informazione culturale è passata di moda: ora è importante stabilire quanto i musei generino entrate allo Stato, e quanto i musei siano importanti per il fenomeno turistico.
Senza nemmeno chiedersi come strutturare strategie che lavorino per estendere la valenza dell’attrattività del nostro Patrimonio Culturale all’estero attraverso azioni che non siano la comunicazione o la promozione della cultura.
L’interesse verso l’osservazione della cultura si è così tanto affievolito che alcuni tra i più importanti musei italiani non avevano mai immaginato di analizzare i dati di traffico del proprio sito web per approfondire il legame tra visite sul sito web e visite effettive presso il Museo dal punto di vista della provenienza.
Oggi sono disponibili tantissime tecnologie che potrebbero migliorare la comprensione della fruizione culturale nel nostro Paese ma, bisogna pur dirlo, sono poche le persone che hanno competenze e sensibilità tali da cercare di strutturare dei flussi informativi che favoriscano la partecipazione diretta dei cittadini alla produzione di dati. Sono poche le organizzazioni che contano una struttura organica tale da poter realizzare in autonomia tale tipologia di rilevazione pur essendo le organizzazioni misurate su parametri differenti.
Le tecnologie esistenti rendono talmente banale pensare ad una soluzione che migliori la conoscenza che si ha del rapporto tra cittadini e cultura che sembrerebbe persino ingenuo ricordarle. Feltrinelli, Mondadori, le catene cinematografiche, persino le catene di GDO probabilmente hanno sui nostri consumi culturali una maggiore mole di informazioni di quanto ne abbia un museo. Per non parlare di Amazon, o di Google.
Ripensare gli Osservatori Culturali è tuttavia possibile. Basta decidere “perché” misurare, e “come farlo”. Il “cosa”, verrà immediatamente dopo. Perché al netto di intenzioni fantascientifiche, che tanto ci piacciono quando vogliamo pensare in grande, sono molti i dati qualitativi che oggi è possibile ottenere.
In un momento storico come questo, in cui lasciamo tracce digitali delle nostre esistenze praticamente in ogni momento della nostra vita, pensare di non disporre di sufficienti informazioni è assurdo. È piuttosto vero che abbiamo smesso di fare domande. Cosa che, tanto per dire, dovrebbe essere una delle azioni che contraddistinguono la nostra specie.
Non resta che aspettare che anche questa funzione venga abdicata a qualche surrogato tecnologico, allora.