di Stefano Valentini *
La prima edizione del volume Principles of Archaeological Stratigraphy di Edward C. Harris è del 1979. Questo volume trae le proprie origini dal dottorato che Harris aveva svolto all’University College London tra il 1976 e il 1978, dal titolo The Notion of Stratigraphy and its Application in Archaeology. Durante una recente intervista[1], però, Edward C. Harris ha fatto più volte riferimento ai 50 anni della sua “creatura”. In effetti il Matrix di Harris fu inventato nel 1973, come riportato anche sul sito ufficiale harrismatrix.com. E allora, se la matematica non è un’opinione, il Matrix celebra quest’anno le sue nozze d’oro con l’archeologia.
Nella sua introduzione alla prima edizione italiana del volume Principi di Stratigrafia Archeologica[2], del 1983, Daniele Mancorda, esordisce in maniera un po’ “spietata” affermando: «Il nome di C. Harris non appartiene al Gotha dell’archeologia mondiale, né la sua attività scientifica fa notizia per i mass-media internazionali, eppure recentemente si è ritenuto di parlare – a ragione – dell’ingresso dell’archeologia contemporanea in una “fase harrisiana” ». Possiamo pensare, però, che ci si fosse immaginati un’evoluzione diversa per le sorti di questo personaggio, che potremmo definire senza ombra di dubbio “rivoluzionario”. Il Matrix di Harris ha oggettivamente cambiato il volto dell’archeologia contemporanea, ma Harris è rimasto sempre e comunque un outsider. Lo dimostra il fatto che lui, originario delle Isole Bermuda, lì sia tornato nel 1980, senza aver mai conseguito una posizione accademica, per svolgere il ruolo di Direttore del National Museum of Bermuda. E viene da chiedersi come mai l’isolamento di Harris nell’establishment dell’archeologia internazionale, comprensibile nel momento storico in cui inventò il Matrix, si sia protratto e cristallizzato nel tempo.

Il lavoro di Harris, nei decenni anche criticato da più parti[3], ha posto le basi teoriche per un’intera nuova generazione di studi e di indagini sul campo, ha mutato le regole del gioco dell’indagine archeologica, ha completamente rivoluzionato l’approccio allo scavo archeologico, ma permane l’impressione che ci siano ancora archeologi che non abbiano recepito la rilevanza del suo lavoro; talvolta così sfacciati da manifestare il loro istintivo fastidio o sospetto verso il Matrix.
Nel mondo dell’archeologia italiana, soprattutto tra i più giovani, certe cose appaiono scontate:
- Il definitivo superamento, a partire dagli anni ’80, dello scavo arbitrario con lo scavo stratigrafico.
- L’omogeneità dei metodi di scavo e delle tecniche di intervento indipendentemente dal contesto storico-culturale.
- L’attività dell’archeologo direttamente sullo scavo e non attraverso altri da lui delegati (operai).
- La definizione e l’avvento, anche al di fuori dell’ambito accademico, di una nuova figura professionale, quella dell’archeologo specialista in stratigrafie.
Ma il merito di gran parte di queste cose lo dobbiamo a Edward C. Harris.
Allora, in un settore disciplinare, quello dell’archeologia, sempre pronto a celebrare anniversari e ricorrenze, dovremo forse ricordarci di questo anniversario.
Che si aspetti il 2029 (50 anni dalla prima pubblicazione dell’edizione del 1979)? Forse sì, o forse no. Il dubbio è che ancora il lavoro di Harris risulti indigesto a qualcuno. Forse perché ancora non sono stati definitivamente risolti il dualismo e gli eterni conflitti tra l’archeologo storico e l’archeologo stratigrafo, tra il livello descrittivo e il livello interpretativo dell’indagine sul campo, tra gli aspetti storici e non storici della stratificazione archeologica.
Chi lo sa? Però esiste una tendenza, mai sopita a livello accademico, a contestare all’archeologo stratigrafo di produrre, attraverso l’utilizzo del Matrix (inteso come un Super Su Doku[4]), una mole di dati “muta”, perché priva della cognizione storica degli aspetti culturali (rischio che, è bene dirlo, esiste), mentre si sottovaluta il fatto che l’archeologo-storico, senza la conoscenza del Matrix, distrugge il contesto sterrando e non scavando. Senza fare mente locale su un fatto scontato: l’eventuale eccesso di tecnicismo dell’archeologo stratigrafo non determina mai una perdita definitiva per la ricerca storica, cosa che invece avviene sistematicamente nel primo caso.
L’archeologia è ormai, per fortuna, una scienza storica, ma come giustamente conclude Daniele Manacorda nella sua introduzione: «Perché dal filologo, dall’epigrafista, dall’iconografo pretendiamo saldezza di metodo, pena gravi scomuniche accademiche, ed invece siamo meno indulgenti con l’archeologo al quale viene spesso riconosciuta dai suoi colleghi una licenza di uccidere? ». E ancora, scrive sempre Daniele Manacorda nella sua introduzione, diamo spesso per scontato tante cose, soprattutto le metodologie applicate nel corso di una ricerca, forse perché c’è una difficoltà ad insegnarle.
Sono passati 50 anni, ma ancora su questo c’è molto da lavorare. Perché spesso, a livello accademico, manca la formazione teorica sui metodi e le tecniche di scavo, perché si pensa ancora che solo con la pratica si possa acquisire un metodo. Perché di base si stenta ancora a riconoscere l’importanza della manualità dell’archeologo e dell’aspetto pratico della sua attività di ricerca.
Che non possa essere questa ricorrenza un buon momento per tornare a riflettere sulla globalità manuale-intellettuale dell’archeologo artigiano?
*CAMNES, Firenze
NOTE:
[1] An Interview with Dr Edward Harris – Inventor of the Matrix. Disponibile sul canale YouTube CAMNES Studio a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=9X_u1MzBYj4&t=3050s
[2] Edward C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica. Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1983.
[3] Si veda a titolo di esempio: Enrico Giannichedda, L’incorreggible Harris e altre questioni, Archeologia dell’architettura, n° IX (2004), 1-11.
[4] Si veda a titolo di esempio: Maura Medri, Harris 2003: super su doku o qualcosa di utile?, in Archeologia dell’architettura, n° IX (2004), 1-6.
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