La sentenza con cui il Tribunale di Firenze è intervenuto sul David di Michelangelo, delle Gallerie dell’Accademia, è stata definita da alcuni, senza troppi giri di parole, “storica”. Per mantenere la stessa roboante retorica la si potrebbe quindi definire anche, non essendo d’accordo con questa decisione, “imbarazzante” per uno stato democratico. Così tracciamo un solco, e dividiamo tutti in Guelfi e Ghibellini, visto che siamo nel capoluogo toscano. Oppure proviamo a fare un punto, difficile, sulla questione.
La causa è quella secondo cui una casa editrice avrebbe usato indebitamente l’immagine, la riproduzione insomma, del David di Michelangelo, per i suoi scopi commerciali. Stiamo parlando dell’immagine, vista milioni di volte ovunque, del David in questo caso su una copertina.
Il Tribunale, facendo sue le tesi dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato – leggiamo sui quotidiani a cominciare dalla Nazione, per giocare in casa, afferma che – “l’immagine dei beni culturali è espressione dell’identità culturale della Nazione e della sua memoria storica da tutelare ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, valore fondante del nostro ordinamento che recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, eccetera eccetera.”. La citazione costituzionale per molti è appesa a un filo invisibile, diremmo quasi audace.
Le Galleria dell’Accademia scrivono in una nota ufficiale che, nientemeno, “ora il nostro ordinamento si pone ora all’avanguardia nel campo della tutela dei beni culturali”. Con una battuta si potrebbe sostenere che l’avanguardia per qualcuno è la retroguardia osservata da un altro punto di vista. Quello, ad esempio, che vede nell’Open Access delle immagini del patrimonio culturale una via maestra per avvicinarsi alle tendenze più attuali in tema di valorizzazione dello stesso, del suo sfruttamento creativo, delle attività di ricerca, della condivisione generatrice di iniziative culturali e, orrore, addirittura “commerciali”. Quelle iniziative, appunto, che poi generano ritorni in tema di condivisione, notorietà e anche in termini economici (con le conseguenti ricadute positive per lo Stato, al di là degli spiccioli che si possano incassare con la “tassazione” delle immagini delle opere stesse. Insomma, il passaggio da una visione tattica da cortile a una strategica globale, per “toccarla piano”.
Quindi torniamo alla vicenda del David, scrive la Nazione, con la casa editrice che ha “pubblicato sulla copertina di una propria rivista il capolavoro scultoreo, modificato col meccanismo della cartotecnica lenticolare e quindi sovrapposto all’immagine di un modello, persona realmente esistente, il tutto in chiave apertamente pubblicitaria”. Se pensiamo all’uso che lo Stato stesso ha fatto con la Venere del Botticelli agli Uffizi, verrebbe da sorridere, ma passiamo oltre.
L’azzardo sembra essere in questo passaggio: “Secondo il Tribunale, come viene garantito, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, il diritto alla identità personale, inteso come diritto a non veder alterato e travisato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale, così occorre tutelare, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, il diritto all’identità collettiva dei cittadini che si riconoscono come appartenenti alla medesima Nazione anche in virtù del patrimonio artistico e culturale che è parte della memoria della comunità nazionale”.
Quindi un danno di carattere patrimoniale – scrivono – ma “soprattutto un danno di natura non patrimoniale, quantificato in 30mila euro, poiché la società editoriale con la tecnica lenticolare “ha insidiosamente e maliziosamente accostato l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello, così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico e identitario dell’opera d’arte e asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”.
Ce n’è a questo punto abbastanza per alcune domande all’avvocato Luca Bauccio, esperto di diritto alla reputazione e dell’immagine, che ci può aiutare ad inquadrare la situazione.
Lo Stato può veramente limitare l’uso delle immagini dei beni pubblici, la loro riproduzione? Monumenti, chiese, palazzi?
“Lo Stato lo fa già. La domanda che ci facciamo è: ha senso? Un tale protezionismo trova giustificazione su una questione reale o meramente retorica? A chi appartiene veramente l’immagine del bene pubblico Colosseo? Sottoporre a censura preventiva l’immagine di un bene pubblico protegge davvero il bene?
Mi rendo conto che si tratti di domande complesse, e la risposta più esaustiva è quella che riesce ad avere uno sguardo d’insieme. C’è una questione economica anzitutto. Indubbiamente lo sfruttamento a titolo oneroso dell’immagine della Fontana di Trevi equivale a danaro per le casse dello stato. Poi c’è una questione più politica: sottoporre a controllo preventivo esprime una sorta di pedagogica sorveglianza dello stato sulla purezza e integrità morale dell’opera, la sua reputazione, come se fosse viva, come se fosse una persona in carne ed ossa. E infine c’è l‘onnipresente questione identitaria: proteggere la reputazione dell’opera equivarrebbe a proteggere l’identità di un popolo o di una Nazione. Qui le cose si fanno complesse: davvero pensiamo che un’opera appartenga ad una nazione? Davvero crediamo che una collettività sia definita da un’opera e non dal senso culturale che quell’opera ha rilasciato nei secoli su di essa? E poi quando si parla di identità collettive dobbiamo fare attenzione, rischia davvero lo stato etico”.
Finora è costata più la macchina burocratica per dispiegare “esattori” di immagini che l’introito dei diritti delle stesse. Ma il difficile è in realtà quantificare il mancato introito, anche banalmente dell’IVA, del possibile sviluppo creativo nato dall’uso di immagini del patrimonio culturale. Non trova che il “danno all’erario” sia proprio nel proibire e chiedere gabelle?
“Ne sono certo. Tutto questo bearsi del fatto che l’uso è a pagamento non tiene conto dei tanti usi che sono stati scoraggiati e che avrebbero potuto generare notorietà, familiarità, prossimità dell’opera al potenziale turista. Il successo di marketing della Gioconda ad esempio è proprio questa sua onnipresenza, questo essere declinata in tante modalità, non sempre di buon gusto ma che però l’hanno resa a tutti nota, necessaria, emblematica. Sfido chiunque a dire che tale uso in tutte le salse del capolavoro di Leonardo abbia svilito l’opera, o corroso l’identità del Louvre o ancora offeso la malinconica e risentita proiezione identitaria degli italiani su di essa. Il capolavoro resta sempre lì, solo che grazie all’uso diffuso nessuno più lo può ignorare nel mondo. In fondo il vero obiettivo dovrebbe essere portare il turista a vedere l’opera e questo risultato economicamente è incomparabile al balzello ministeriale. Temo che tutto questo dibattito sulla reputazione dell’opera d’arte rischi una sorta di antropomorfizzazione del bene artistico che mi pare naif e autolesionistico. Una forma retorica per dire a tutti che siamo attaccati all’opera e la proteggiamo, le vogliamo bene, la veneriamo, la sacralizziamo. Proprio questo però mi pare il modo più efficace per allontanarla dal fruitore, ossia da colui che pagando il biglietto di ingresso compie il duplice meraviglioso gesto di andare a trovare l’opera d’arte dandole vita e di permettere a chi la custodisce di disporre dei danari sufficienti per farlo nel modo migliore”.
Cosa ne pensa di quanto afferma il tribunale di Firenze?
Mi colpisce questa estensione della nozione di identità personale all’identità collettiva. La prima è giuridicamente definita, comprensibile, giustificata. La seconda non si sa bene cosa sia: l’identità collettiva è una stimolante categoria sociologica, piena di insidie peraltro, ma sul piano giuridico è un nulla, un dato inafferrabile privo di materialità e di capacità individualizzante. Quindi estranea alla tutela della legge. Aspetto di leggere la sentenza però, non sarebbe la prima volta che si faccia dire ad un provvedimento di un Tribunale il contrario di ciò che ha realmente stabilito”.
In definitiva, è sbagliato definire questo cercare la limitazione all’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico come “pseudo-copyright”?
“L’espressione coglie la preoccupazione verso la creazione estensiva di categorie giuridiche forgiate per situazioni, interessi e beni molto diversi. Non possiamo parlare di protezione del David come si protegge un brano musicale o un libro appena pubblicati. Il primo è un bene patrimonio dell’umanità, il secondo è un bene creato da un vivente e destinato (anche) allo sfruttamento commerciale. Il primo è protetto dalla nostra comune condivisione di valori, principi, giudizi che ci fanno appartenere ad un’unica comunità umana, il secondo ha bisogno di una legge per vivere incolume e per mantenere la sua funzione economica. Mi paiono due piani che difficilmente potranno davvero sovrapporsi”.
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