venerdì 26 Aprile 2024

“Open to Meraviglia” e l’uso libero delle immagini del patrimonio culturale italiano, oltre le critiche “bello-brutto”

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Quanto è costato al Ministero del turismo l’uso dell’immagine della Venere del Botticelli degli Uffizi, e quindi di proprietà dello Stato italiano nella campagna pubblicitaria “Open to Meraviglia”? Stiamo parlando dell’uso dell’immagine, non della campagna in sé. Crediamo sia costato nulla, secondo il comma 3-bis dell’art.108 del Codice dei beni culturali (vedi sotto). Ma se il Ministero della cultura avesse deciso, a suo giudizio, che qualcosa dell’elaborazione pubblicitaria di Venere, trasformata quasi chirurgicamente e stereotipizzata, fosse stata “a scopo di lucro” e magari “dannosa all’immagine del Paese”, l’ avrebbe paradossalmente potuta negare. Ecco, è il paradosso sull’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico italiano uno dei veri nodi di questa vicenda.

Dopo l’ondata di critiche feroci alla campagna “Open to Meraviglia”, che dovrà promozionare il turismo verso l’Italia, stiamo assistendo alla prevedibile risacca a difesa del lavoro dell’Armando Testa, l’agenzia più nota del nostro Paese. La difesa ha un fondamento solido: tipo “chi critica non è un professionista della pubblicità e del marketing turistico”, oppure “ora in Italia ci siamo svegliati con 60 milioni di pubblicitari”. Che, se vale con l’archeologia nei confronti di programmi come “Antica Apocalisse” e altre scempiaggini, non si vede perché non debba valere anche nel campo della promozione del nostro Paese. L’altra difesa è “il pubblicitario fa quello che gli viene chiesto dal cliente”, quindi dall’Enit/ministero. Ovviamente ci sono anche critiche argomentate da professionista a professionista, ma l’arroccamento a difesa della categoria si è notato.

Ci spiegano, in poche parole, che bisogna capire a chi è rivolta la campagna pubblicitaria, insomma, il target. Andando al sodo, “si mostra quello che il turista si aspetta”, un’Italia conosciuta per pizza, Venezia, Colosseo, moda (anche se la Venere indossa capi presi da foto di stock, orrore!), mare da sogno e biciclettate su strade che sappiamo ahimè piene di buche. Manca solo il mandolino, che magari arriva nelle prossime puntate. Perpetuando in eterno gli stereotipi, come fanno in fondo altri paesi.

Nella – bellissima – pubblicità per il turismo svizzero (link) si gioca, per esempio, sulla puntualità e l’ordine, persino sulla noia. Però utilizzano Roger Federer e altre star internazionali di primissimo ordine per trasformare i luoghi comuni in vantaggi, turismo lento, di qualità, indirizzato a turisti amanti della natura, del relax, della cultura. Si vede che per il marketing turistico nostrano, dopo anni di slogan a colpi di “Italia dei borghi”, “turismo che coniuga mare e cultura”, “museo diffuso”, quello del turismo a cui mira la Svizzera non è evidentemente il nostro, di target.

Roger Federer e Anne Hathaway nella pubblicità del turismo svizzero

Inoltre, l’Italia non ha certamente messo molte risorse per la campagna, a differenza del pensiero dominante di “spreco” che gira sui social: 9 milioni per realizzarla e diffonderla comprando spazi per sei mesi all’estero non sono certamente un “aggredire il mercato”, social compresi.

“Very Bello” di otto anni fa, del ministro Franceschini, non sembra abbia funzionato. Se funzionerà “Open to Meraviglia” del ministro Santanchè sarà tutto da vedere, non ci interessano valutazioni politico/ideologiche.

L’uso delle immagini del patrimonio pubblico

Ma c’è a nostro avviso quell’aspetto che deve essere sottolineato, quello dell’uso delle immagini, che è strategico per un paese come l’Italia, dove la creatività è e resta un motore vero, e non retorico, di sviluppo economico.

Si tratta di una sorta di pseudo-copyright (ho rubato questa definizione) imposto dal codice dei beni culturali e del paesaggio (artt. 107-108) a chiunque voglia fare un simile utilizzo di un bene culturale di ottenere “preventiva autorizzazione”. Che si tratti di un limite enorme alla possibilità di generare creatività non solo in campo artistico, ma produttivo, è evidente. Parliamo di opere visibili a tutti, che fanno parte del panorama, delle città, di opere d’ingegno spesso collettivo, risalenti a secoli o millenni fa. L’autorizzazione preventiva va evidentemente contro qualsiasi forma di promozione diretta e non tutela alcunché.

A meno che non si stia parlando delle solite scempiaggini sull’uso delle pudenda del David di Michelangelo nei grembiulini prodotti in oriente per la paccottiglia sul web, in vendita sul noto portale a euro 9,54 senza costi aggiuntivi (nella ricerca effettuata il 25 aprile 2023). Sì, perché il mondo se ne infischia delle tariffe ministeriali, gli unici danneggiati sono gli imprenditori e i creativi italiani, il tanto citato “sistema Italia” in generale, e non parliamo di souvenir da quattro soldi.

Si parla tanto di promozione del Made in Italy (che si ritrova persino nella denominazione ufficiale di uno dei nostri ministeri), di industria del tessile, del sistema-moda dell’editoria, dell’audio-visivo, di qualsiasi ispirazione ed elaborazione che in campo industriale allargato può essere veicolata attraverso le immagini del patrimonio culturale italiano: perché allora non liberalizzare l’uso di queste immagini? Si pensi a trame di arazzi rinascimentali, un profilo di un ritratto quattrocentesco, ceramiche apule, incisioni della protostoria rupestre alpina, paramenti murari di palazzi medievali, skyline di torri e campanili, rocchi di colonne e scoperte archeologiche, nelle contaminazioni a volte più assurde, a volte di gusto pessimo, spesso foriere invece di pulsioni nuove, di arte, di immagini, di spunti. Immagini di opere possono così diventare, esse stesse, nuove opere. In fondo il “pubblico dominio” è proprio questo.

Ma il problema è tutto qui: chi decide cosa sia “di buon gusto” e cosa no? In base a quale criterio di “morale pubblica” o di “interesse pubblico” ?. È pubblico interesse limitare l’ispirazione del patrimonio comune, altrettanto pubblico? Lo deciderà un funzionario di soprintendenza, che francamente avrà già il suo gran da fare per assicurare la tutela e la condivisione del bene pubblico?

Sarà perciò sempre più difficile che la macchina burocratica, che dovrà rispondere alle richieste di autorizzazioni, possa continuare a tenere testa a questo flusso continuo di pratiche , oltre al fatto che l’incombente macchina autorizzatoria è destinata ad essere assai più costosa rispetto agli incassi che potrà generare, come è provato essere avvenuto finora. Abbiamo bisogno di tutela, studio, prevenzione, valorizzazione, condivisione di conoscenza, non di gabellieri “Alt, un fiorino!”

Anzi, le pratiche sono solo destinate a crescere, peraltro a danno di chi fa ricerca, perché il nuovo DM 11 aprile 2023 (https://cultura.gov.it/comunicato/dm-161-11042023) stabilisce, per la prima volta, che tutti gli istituti dovranno fare pagare a studenti e ricercatori un canone concessorio anche per la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in articoli su riviste scientifiche, “tassando” in questo modo la divulgazione degli esiti della ricerca. Al di là del danno alla ricerca, l’idea di fondo è quella di ricercare e ricavare la massima redditività dal patrimonio culturale, andando quindi in direzione diametralmente opposta rispetto alle tendenze che, nella realtà internazionale, spingono verso l’Open Access.

NEL VIDEO LE ARGOMENTAZIONI A FAVORE DELL’OPEN ACCESS SULLE IMMAGINI DEL PATRIMONIO CULTURALE

Torniamo alla censura dei film dei grandi registi italiani, al controllo delle idee? Ovviamente escludiamo sia questo lo scopo, la buona fede è nel “far guadagnare qualcosa” allo Stato, ma l’effetto è opposto, basti pensare ai mancati incassi IVA per la “produzione” generata attraverso alla creatività innescata dal patrimonio culturale.  Questo errore viene da lontano, non è certo colpa dell’attuale ministro Sangiuliano. Ma è la direzione ostinata e contraria alle migliori pulsioni dell’open access in campo internazionale che stupisce. La miopia, ripetiamo in buona fede, di chi consiglia questa strada.

In conclusione, le nuove linee-guida volute dal ministero della Cultura nel citato decreto hanno imposto quindi una pesante burocratizzazione e una significativa revisione delle tariffe, secondo complicatissimi parametri, per l’uso di immagini del patrimonio pubblico (quindi appartenente a tutti i cittadini). Se ci si pensa non si tratta del “bene” in sè, ma solo della riproduzione immateriale del bene pubblico. Nei fatti si passa a uno strettissimo controllo sull’uso delle immagini del patrimonio culturale (pubblico, lo ripetiamo fino allo sfinimento, quindi non “di un ministero” o di qualsiasi altro ente o sotto-ente dello Stato) per cui nessuno può utilizzare gratuitamente le immagini di qualsiasi cosa, chiesa, castello, dipinto, reperto, opera d’arte in genere, a meno che non si tratti di attività palesemente senza fini di lucro, a cominciare ovviamente da quella giornalistica. ArchaeoReporter e le altre testate continuano quindi ad essere salve, per fortuna.

Il paradosso dei paradossi è che anche un ente dello stato, un ministero, si potrebbe vedere negata in ipotesi l’autorizzazione preventiva qualora s’azzardasse a vendere brochure con fotomontaggi della Venere di Botticelli. Il controllo censorio preventivo scatterebbe però solo in presenza di pubblicità commerciali, ciò a dimostrazione della contraddizione insita nella norma. Insomma, un ministero in quest’ultimo caso non sarebbe libero di usare la nostra Venere del Botticelli, al di là del fatto che sia un capolavoro del marketing turistico o la peggiore pubblicità mai realizzata. Appunto, chi siamo noi per giudicare – e bloccare – lavoro e creatività altrui?

Edit: l’articolo è stato integrato con ulteriori considerazioni in data 26 aprile 2023

Beni Culturali: basta con le limitazioni all’uso delle immagini – Intervista al professor Giuliano Volpe – Con un approfondimento della redazione

 

Perché è realmente importante estendere il dibattito sulla liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale

 

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