L’archeologia rappresentata nei fumetti più datati, ora nei videogames, presuppone ovviamente immagini di tesori nascosti, di mummie improbabili e di scheletri più o meno onnipresenti. Ora, l’archeologia sta cercando di lottare, non sempre con strumenti comunicativi adeguati, per spiegare come il “tesoro” non sia costituito sono dai (rari) oggetti preziosi, ma anche da qualsiasi testimonianza materiale e traccia antropica che sveli comportamenti umani nel corso della storia. L’antropologia, invece, ha problemi non solo nel comunicare “a cosa serva” studiare uno scheletro, ma anche come gestire quelli che non sono “oggetti” ma resti umani sul piano complesso e intrecciato dell’etica, della politica, delle religioni e della condivisione dei metodi scientifici.
In “Quel che resta – Scheletri e altri resti umani come beni culturali” a cura di Maria Giovanna Belcastro, Giorgio Manzi e Jacopo Moggi Cecchi (Il Mulino) si fa proprio il punto sullo stato dell’arte di questo fondamentale campo di ricerca, che ha ricadute come “potenziale informativo” su archeologia, studio dell’evoluzione umana, medicina, studi demografici e ovunque le frontiere sempre più avanzate della scienza possano trarre vantaggio dalla ricostruzione delle storie di vita del passato.
Una drammatica condizione intermedia tra ciò che resta di un’esistenza e un archivio biologico
La serie di saggi raccolti nel volumetto (182 pagine) saranno senz’altro utili agli studenti di antropologia e archeologia, oltre a chi deve trattare professionalmente i resti umani per scopi museali, didattici e di conservazione. Anche però chi deve comunicare i risultati scientifici e l’importanza della ricerca potrà orientarsi attraverso i casi di studio presentati. I resti umani si pongono “in una sorta di drammatica condizione intermedia tra quello che rimane di un’esistenza (con tutto il portato di questo status) e, al contempo, ciò che rappresenta un’insostituibile testimonianza di interesse scientifico, un vero e proprio archivio biologico e culturale degli esseri umani del passato, che può (e deve) essere registrato, conosciuto e interpretato”, scrive nella prefazione Luca Sineo.
QUI, LO STUDIO DI NORA ATTRAVERSO I RESTI UMANI DI UN’ANTICA COMUNITÀ DELLA SARDEGNA:
Gli studiosi affrontano quindi lo sforzo dei musei scientifici nel presentare i resti umani non come “curiosità” addirittura morbose, ma come possibilità di studio e disseminazione della conoscenza. Fanno un sintetico punto sulla genetica e le sempre più sorprendenti tecniche di analisi, in cui alla minore invasività e rapidità si somma la quantità e importanza di dati scientifici a disposizione, ad un livello impensabile solo pochi lustri fa. Omeopaticamente, ma senza fare sconti, Manzi e Pievani, affrontano il tema degli stereotipi comunicativi (ad esempio luoghi comuni come “l’anello mancante”), delle fake news, delle difficoltà di comunicazione, di storture quasi truffaldine spacciate per paleogenetica, come quella applicata da una società ungherese sul web che prometteva analisi genetiche per attestare “purezza razziale” di qualche cittadino dell’Ungheria che non gradisse “contaminazioni” ebraiche o zingare. Ossia la strada opposta a quella indicata proprio dalla stessa paleogenetica.
Vengono affrontati argomenti che legano la politica internazionale al trattamento dei resti umani nel poroso confine tra archeologia e antropologia, con implicazioni extra-scientifiche sorprendenti e complicazioni da romanzo. Il tutto per arrivare, da molte direzioni, alla necessità di considerare i nostri “scheletri” non solo come oggetto si studio o di curiosità, ma come veri e propri “beni culturali”.