Nella maggior parte dei casi, accostare la disciplina archeologica e i processi di rigenerazione urbana evoca un’immagine specifica: l’archeologo che, in luce del suo mandato, monitora l’avanzamento dei lavori al fine di verificare che dagli stessi non emergano ritrovamenti materiali legati alla nostra storia.
Un’immagine senza dubbio veritiera, ma che rischia di restituire un rapporto antitetico tutt’altro che realistico.
Sebbene sia infatti pacifico affermare che tra gli scopi più specifici dell’agire archeologico sia quello di tutelare le testimonianze del nostro passato, è altrettanto pacifico che tale azione diviene ostativa soltanto nei casi in cui, al centro dei processi di rigenerazione urbana, viene posta l’azione immobiliare ed il rinnovamento delle infrastrutture materiali.
Negli altri casi, invece, e vale a dire nei casi in cui l’agenda urbana prevede una riqualificazione immobiliare dell’esistente, coerentemente con le esigenze di riduzione del consumo di nuovo suolo da anni poste al centro del dibattito architettonico-urbanistico, l’archeologia rappresenta una risorsa per il raggiungimento degli obiettivi di rigenerazione e di certo non un vincolo agli stessi.
Non sempre, va detto, le esigenze archeologiche coincidono con gli interessi di sviluppo urbano. Esistono molti casi, e nel nostro Paese se ne contano a decine, in cui il rinvenimento di ritrovamenti archeologici bloccano, sine die, piani di investimento milionari, finalizzati alla creazione di infrastrutture in zone urbane meno fornite, creando non poche difficoltà in termini di sostenibilità economica e finanziaria dei piani stessi.
Ci sono però casi in cui, la naturale e necessaria azione di riqualificazione del nostro tessuto urbano potrebbe essere condotta anche al netto di importanti interventi infrastrutturali. Spesso si tratta di casi meno dibattuti, relegati a casi regionali o municipali, ma che sono tutt’altro che rari nelle nostre città, a prescindere dalle dimensioni e dal numero di abitanti delle stesse.
In questi casi, l’archeologia non solo smetterebbe di assumere la parte del “controllore”, ma potrebbe altresì rappresentare un ruolo proattivo, una disciplina in grado di arricchire di senso interventi che, date le caratteristiche storiche dei nostri tessuti urbani, potrebbero facilmente trovare nelle conoscenze dell’archeologia un valore fondante.
Non è raro, ad esempio, che i territori di un comune periferici rispetto al centro abitato, rappresentino nuclei dei primi insediamenti abitativi: da Sondrio a Caserta, da Vibo Valentia a Trieste, sono molteplici le città che vedono nelle loro “frazioni”, testimonianze di insediamenti molto antichi, talvolta più antichi di quello che sarebbe poi divenuto nel tempo il centro delle città.
Malgrado il loro essere risalenti, questi territori sono raramente valorizzati, e ancor meno frequentemente sono oggetto di interventi di riqualificazione. I motivi sono molteplici: la scarsità delle risorse, l’esigenza di intervenire in modo più evidente su altre periferie urbane, spesso più recenti e più socialmente difficili, un numero ridotto di abitanti, la distanza dal centro, l’impossibilità di avviare interventi di rilancio dell’economia locale.
Per questi territori, tuttavia, l’archeologia può esercitare una spinta propulsiva, così da favorire interventi di riqualificazione urbana “minori”, ma non meno importanti. Interventi che potrebbero favorire lo sviluppo territoriale dell’intero tessuto urbano, incrementare il valore degli immobili, generare la creazione di iniziative culturali in grado di attirare i residenti del vicino centro.
Spesso, però, interventi di questo tipo non vengono finanziati sulla base di una logica quantomai algebrica ed elementare: il rapporto tra le risorse investite e il numero di abitanti. Si tratta tuttavia di una logica fallimentare, perché seguendo questo principio non dovrebbero esistere centri minori, ma solo enorme megalopoli, in cui concentrare tutti i servizi, dagli ospedali ai musei.
Soprattutto, tale logica si mostra miope e banalmente aritmetica perché non tiene conto degli effetti che interventi di questo tipo potrebbero generare sul tessuto urbano nella sua interezza, che invece potrebbero rivelarsi essere tutt’altro che trascurabili.
Si tratta di elementi che sono tutt’altro che ignoti, è vero, ma che non vengono attivati perché anche gli aspetti strutturali della nostra finanza pubblica tendono ad ingessare gli interventi di riqualificazione all’interno di schemi che replicano logiche ristrette.
Un esempio tra tutti: il bando qualche tempo fa emanato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la presentazione di progetti per la predisposizione del Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia.
In quell’occasione, il testo dell’avviso specificava che “ai fini del presente bando, si considerano periferie le aree urbane caratterizzate da situazioni di marginalità economica e sociale, degrado edilizio e carenza di servizi”.
È chiaro che una tale descrizione identifica i quartieri più densamente popolati delle nostre città, con un’importante presenza di edilizia residenziale pubblica (case popolari), solitamente associati a degrado culturale, sociale, economico, ecc.
Quartieri che senza dubbio hanno bisogno di finanziamenti straordinari, e che senza dubbio presentano i più grandi margini di crescita.
Accanto a tali quartieri, però, esistono aree delle nostre città che pian piano tendono a scomparire, a meno che non divengano oggetto di interesse di coloro che in quelle aree intendono costruire centri commerciali o affini.
Probabilmente, un programma di riqualificazione di queste specifiche aree urbane, definito e coordinato a livello centrale, potrebbe aiutare le persone a riscoprire quei territori della propria città che non rientrano all’interno della propria quotidianità, ma che spesso conservano testimonianze importanti della storia degli insediamenti che si sono avvicendati in quel territorio.
Aree urbane su cui l’archeologia potrebbe intervenire per ricostruire una narrazione corale del territorio, e non soltanto limitandosi a verificare che l’interesse pubblico venga tutelato.