Che ci piaccia o meno, il rapporto tra cultura e tecnologia, visto dagli occhi di chi si occupa di cultura, è sempre vittima di un profondo equivoco. Quando si pensa all’unione di questi due grandi “saperi”, c’è sempre l’idea che la tecnologia – elemento innovativo del nostro tempo – debba svecchiare, rendere più appetibili i contenuti della cultura o, se vogliamo, incrementarne il livello di accessibilità e fruibilità.
La verità però è un’altra. Questa visione, infatti, dipinge la tecnologia con toni semi-divini, riprendendo, senza l’enfasi del futurismo, quell’approccio adorante della tecnica come espressione dello sviluppo della società.Vista più da vicino, però, la tecnologia è un insieme molto eterogeneo di prodotti e di servizi, sviluppati da una platea ancora più ampia di soggetti che, dalle start-up monopersonali alle grandi università, identificano attraverso l’insieme di mezzi e conoscenze oggi disponibili specifiche soluzioni ad altrettanto specifiche necessità.
La dematerializzazione dovuta alla rivoluzione digitale, forse, ha fatto perdere di vista questo elemento che, tuttavia, rimane ben chiaro a chiunque sviluppi impresa, investa o faccia ricerca. Se teniamo chiaro questo elemento, allora, la relazione che tutti intendiamo quando parliamo di tecnologia e di cultura rappresenta soltanto in minima parte il reale livello di potenziale commistione che queste due macroaree dell’agire umano offrono.
L’archeologia ne è un esempio tangibile.
La tecnologia che rende appealing l’archeologia, metafora non molto lontana del siparietto Ferragni-Amadeus all’ultimo Festival, rappresenta sicuramente una delle dimensioni più visibili di tecnologie applicate alla cultura: basti pensare ai visori 3D e più in generale a tutte le esperienze immersive e le ricostruzioni virtuali di luoghi e monumenti che oggi non esistono più.
Chiunque si occupi di archeologia, però, sa bene che questa è soltanto una delle molte applicazioni possibili, così come è solo una delle molte attività che prevedono team multidisciplinari con competenze tecnologiche ed archeologiche.
Sul campo, lo strumento tecnologico “più banale” di competenza dell’archeologo è, ad esempio, la stazione totale, che seppur “accessibile” e semplice da usare richiede l’utilizzo – e quindi la conoscenza – di applicazioni digitali piuttosto sofisticate, che richiedono competenze sempre più specializzate, che oltre a migliorare sensibilmente il “prodotto” finale, riducono notevolmente i margini di errore e i tempi di elaborazione.
Non è però l’unico esempio che può essere utile citare. Nell’alveo delle iniziative un po’ più sperimentali, che tanto attraggono in questo periodo storico, vale la pena raccontare la storia di Iris Kramer (classe 1993), giovane laureata in archeologia con dottorato in “computer science”, che per prima ha seguito un percorso di ricerca in deep learning per utilizzare immagini satellitari e intelligenza artificiale nella valutazione del rischio archeologico. Iris nel 2020 ha fondato la società ArchAI e con le sue competenze rileva, segnala e monitora siti archeologici e offre servizi a costruttori e amministrazioni. Il suo metodo è ritenuto rivoluzionario e i vantaggi di questa tecnologia stanno nella velocità, nella precisione e nella sostenibilità.
Di nuovo, quindi, un insieme di strumenti che, ricorrendo a conoscenze e competenze differenziate, permette di realizzare, in modo più semplice e meno costoso, un’azione che altrimenti richiederebbe un dispendio di tempo e di denaro ben più elevato.
Parlare di visori 3D, certo, è più cool. Le ricostruzioni virtuali sono molto più interessanti delle stazioni totali. Ma questa è soltanto la punta dell’iceberg.
C’è un aspetto del rapporto tra tecnologia e cultura che è molto più generativo e, per certi versi, molto più innovativo delle sole ricostruzioni o dell’utilizzo dei social: l’idea secondo la quale la cultura genera problemi che le tecnologie possono risolvere.
Ancor più interessante è poi un altro aspetto di questa particolare relazione: l’archeologia, si sa, ha sempre mutuato metodi e tecniche da altre discipline, come la geologia, la chimica e via dicendo, potrebbe essere giunto il momento di invertire l’assioma e sviluppare strumenti che, nati in ambito archeologico, possano essere utilizzati anche per altri scopi, nuovi, diversi, completamente differenti da quelli iniziali.
Se non si percepisce la dimensione “industriale” della tecnologia, riusciamo a coglierne solo rami isolati, come quello più prettamente legato all’entertainment, che è sicuramente un aspetto importante per il nostro tempo, ma non di certo l’unico.
In questo rapporto, quindi, la cultura non si può limitare a porre domande. La cultura deve presentare dei problemi. Problemi reali, con soluzioni reali.
E altrettanto reali opportunità imprenditoriali.
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