giovedì 28 Marzo 2024

Archeologia e imprese, serve una nuova fiscalità

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di Carolina Megale e Stefano Monti

“Ci riconosciamo in un’archeologia e in un mondo di archeologi professionisti che consapevolmente e con responsabilità accompagnano il processo di rinnovamento infrastrutturale del Paese – applicando il mandato costituzionale che impone la tutela del patrimonio archeologico – e rendono questa tutela compatibile con tutte le altre esigenze del Paese, crediamo in un’archeologia al servizio della propria comunità, capace di tutelare il patrimonio, mettendolo a disposizione per la più ampia fruizione, mentre il Paese progredisce e avanza”.

Chiude così il comunicato stampa dell’Associazione Nazionale Archeologi legato al recente invito in cui le si chiedeva di relazionare in materia di archeologia nel Codice dei Contratti Pubblici.

Come spesso accade nel nostro Paese, ma questo è vero anche a livello internazionale, la parte più rilevante del discorso non è tanto ciò che un comunicato stampa esprime, quanto piuttosto quel che un comunicato stampa omette o tace.

Nel caso specifico, ad esempio, non è tanto il fatto che l’ANA si professi pubblicamente impegnata nel costruire un’archeologia “al servizio della propria comunità”, quanto piuttosto il fatto che avverta l’esigenza di ribadire tale posizione.

L’archeologia, infatti, è al servizio della comunità per definizione. Così come per definizione l’attività archeologica agisce secondo una logica che contempera le esigenze di tutela con le esigenze dello sviluppo infrastrutturale del Paese.

L’esigenza stessa di dove ribadire elementi così ovvi, indica che, probabilmente, nella pratica quotidiana, tali ovvietà sono tutt’altro che consolidate. E in questo corto circuito, ci sono più elementi di riflessione.

Alla base di tutto, c’è l’evidenza che l’archeologia, con il suo mandato di tutela, possa perseguire interessi che si contrappongono ad interessi altri. Condizione che, tuttavia, è solo in parte vera.

Perché se è vero, e lo è, che un’impresa che effettua degli scavi, auspica che da tali scavi non emerga alcun reperto, è altrettanto vero che tale auspicio non è affatto dovuto ad un’innata avversione verso l’archeologia. Al meglio delle nostre conoscenze, infatti, non risulta alcun atto che imponga, a coloro che sono impegnati sul versante infrastrutturale, di giurare eterna avversione al passato e ai suoi rinvenimenti. Né tantomeno risulta che nelle Università, i futuri archeologi vengano indottrinati per contrastare qualsiasi forma di sviluppo infrastrutturale.

Tuttavia, nella pratica quotidiana, è innegabile che serpeggi un reciproco sospetto. Un sospetto che, pur se non immediatamente rinvenibile tra coloro che lavorano in cantiere, dove spesso si instaura un clima cordiale tra archeologi e operai, è invece piuttosto palpabile ai livelli decisionali.

Perché infrastrutture e archeologia, tranne casi specifici, non perseguono affatto interessi divergenti. Nella maggior parte dei casi, a renderli tali, sono fattori estranei a questa relazione. E questi fattori si chiamano, tendenzialmente, tempo e denaro.

E sono fattori che dipendono, in buona sostanza, dallo “scenario di riferimento”, vale a dire da quell’insieme di regole del gioco che disciplinano i rapporti tra queste due parti.

Se il ritrovamento di una struttura o di un reperto non rappresentasse il blocco sostanziale dei lavori, e se l’identificazione di tale rinvenimento fornisse garanzie sufficienti a tutelare il maggiore investimento, che anche il rallentamento dei lavori comporta, probabilmente non sussisterebbe alcun conflitto di interesse.

Anzi.

Definendo in modo differente le regole del gioco, si potrebbe facilmente arrivare alla condizione opposta: quella in cui archeologi e imprenditori considerino il ritrovamento archeologico un’opportunità e non una disgrazia.

Ed ecco allora che torna il tema del premio di rinvenimento. Senza entrare nella giurisprudenza, regolata dagli articoli 90-93 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (http://2.42.228.117/archeologia/index.php?it/173/premio-per-i-ritrovamenti), si rammenta soltanto che il ritrovamento fortuito di un bene archeologico da diritto, allo scopritore o al proprietario dei terreni, ad una “ricompensa” pari a un quarto del valore del bene ritrovato e che tale “ricompensa” può essere corrisposta in denaro, in una parte dei reperti rinvenuti oppure, attenzione, in un credito d’imposta.

Applicare la norma, o meglio, introdurre concretamente la possibilità di intervenire sulla fiscalità a vantaggio delle imprese e dei privati, ammortizzando ad esempio le spese sostenute per le pratiche relative all’archeologia preventiva e per gli scavi d’emergenza, trasformerebbe le procedure di tutela in un fattore migliorativo piuttosto che limitante.

Ma una tale impostazione presuppone una completamente differente interpretazione culturale del nostro tempo.

Basta dunque chiedersi per quali motivi un’opportunità di questo tipo non sussiste, per capire davvero chi vuole che archeologia e infrastruttura perseguano interessi così artificialmente contrapposti.

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