Il successo della mostra “I Pittori di Pompei” al Museo archeologico di Bologna a cura di Mario Grimaldi (edit: prorogata fino al 1 maggio 2023) è senz’altro dovuto alla presenza di molti affreschi provenienti dalle città vesuviane, di grande qualità, prestati dal Museo archeologico nazionale di Napoli. Ma anche dal filo conduttore della mostra, che in questi casi è talvolta tenue: basta mettere belle opere, spesso note in tutto il mondo, e il gioco è fatto al botteghino. Il presupposto scientifico, e diremmo anche didattico della mostra, è invece solido: cercare di evidenziare l’esistenza di chi, invece, è anonimo fin dall’antichità, ossia gli artefici delle pitture parietali, in ambito privato, nel mondo romano. In altre parole, togliere dall’anonimato i “pittori di Pompei”.
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Plinio il Vecchio, è presto detto, li liquidava come poco più che abili decoratori. Per lui solo i pittori che dipingevano quadri, quindi tavole, erano degni della gloria, in particolare dove i pictores creavano per la committenza pubblica, per il sacro, per sottolineare le virtù civiche della città. Ma per gli autori degli affreschi, pompeiani e non, la gloria non c’era: “abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni“. Insomma, dei meri artigiani dell’ornamento. Forse con capacità tecniche, ma nulla di più.
La distinzione artigiano-artista non è una categorizzazione che ci possa interessare più di tanto. Ma questi artigiani-artisti hanno il diritto di essere indagati, non fosse altro che per il grande influsso che questi a volte abili artefici, o talvolta semplici mestieranti non troppo dotati di tecnica, esercitarono dal Settecento in avanti anche sul gusto che è arrivato fino a noi attraverso la ricerca archeologica e le interpretazioni delle accademie. Il pittore quindi può uscire dall’anonimato, anche se le firme sulle pareti di Pompei, Ercolano, Oplontis, sono una rarissima eccezione. L’indagine delle tecniche, delle ricorrenze, dei modelli, spesso ci svelano una stessa mano, una sorta di “firma” nascosta, insomma l’esistenza stessa, soggettiva, dell’artefice. Che fosse poi artista, artigiano, decoratore o quant’altro, poco importa. A noi interessa intravvedere la mano dietro al pennello, intenta a macinare pigmenti e a dosarli per la prossima opera. Una di quelle opere che il caso, e poi l’archeologia, è riuscita a portare fino alla nostra epoca senza che fosse completamente dispersa.
Si tratta di una sorta di postuma giustizia rispetto al già citato passo pliniano che qui riportiamo estesamente: “In verità però non c’è gloria se non per coloro che dipinsero quadri; e a questo proposito tanto più ammirevole appare la saggezza degli antichi. Essi infatti non abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni, né decoravano case che sarebbero rimaste sempre in quel luogo e sottoposte quindi alla distruzione per gli incendi … Non ancora era di moda dipinger tutta la superficie delle pareti; l’attività artistica di quei pittori era rivolta verso gli edifici cittadini e il pittore era considerato proprietà dell’universo” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 118).
Per questo il curatore Mario Grimaldi scrive, nell’introduzione al bel catalogo della mostra (Mondo Mostre editore) che “Il caso delle citta seppellite dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. – Ercolano, Pompei e Stabia – appare uno dei piu completi per l’eccezionale contestualizzazione degli apparati decorativi che, conservati perfettamente in situ, permettono così di ricomporre quei rapporti spazio-funzionali del contesto decorativo dandoci la possibilita di tener fede metodologicamente al concetto di rapporto tra spazio e decorazione e soprattutto di contesto. Infatti sempre piu si e integrato all’analisi tipologica degli “stili” l’interesse verso i rapporti esistenti tra la decorazione degli ambienti e la loro funzione. In questo contesto la figura del pictor appare essere fondamentale per tradurre in immagini il rapporto esistente e necessario per il committente tra spazio, la sua casa, e decorazione“.
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