venerdì 29 Marzo 2024

Archeologia della prigionia per creare un rapporto con i detenuti

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In carcere è più semplice incontrare un analfabeta che un laureato. I due estremi del percorso di formazione rappresentano, è giusto dirlo, entrambi delle minoranze: gli analfabeti sono il 2,9% contro i laureati che sono invece il 2,1%.

I dati emergono dal rapporto Antigone, ed evidenziano come i cittadini che popolano le nostre carceri mostrino una distribuzione della formazione molto differente dai dati nazionali. La maggioranza assoluta è rappresentata dal diploma di scuola media inferiore (57,6%), seguita dalla scuola elementare (17,5%) e dal diploma di scuola media superiore (15,5%). Queste evidenze spesso vengono interpretate secondo un’unica prospettiva che, affermando che il tasso di criminalità si abbassa man mano che si eleva il tasso di formazione, tende a rafforzare il ciclo formativo formale.

Verissimo, ma è evidente che, pur con tutto l’impegno, economico e organizzativo che è stato in questi anni profuso nei riguardi di questa tipologia di “educazione della popolazione”, esistono casi che inevitabilmente sfuggono a questa tipologia di politica. L’abbandono scolastico avviene per i motivi più disparati, ma è innegabile che una componente di questa dimensione sia rappresentata dal fatto che per molte famiglie, un ciclo formativo così lungo, semplicemente non è possibile.

Anche questa evidenza spesso viene interpretata secondo una visione unitaria: coerentemente con gli obiettivi di scolarizzazione, quindi, le famiglie italiane possono godere di alcuni sussidi e agevolazioni per far sì che chi ne abbia bisogno possa in ogni caso seguire il ciclo di studi.

Per quanto queste osservazioni abbiano sinora mostrato di essere fondate, possono essere tuttavia arricchite da un’altra interpretazione dei dati. Partendo infatti dall’assunto che, malgrado gli sforzi di istituzioni e organizzazioni, esistono ancora fette di popolazione che non vengono coinvolte dalla formazione formale, e che all’interno delle carceri siano presenti moltissime persone che non hanno mai completato il proprio percorso formativo, allora il carcere va in qualche modo considerato come un’opportunità, per il nostro Paese, di raggiugere persone altrimenti irraggiungibili.

Parlare di opportunità nel carcere è sempre una questione molto delicata. Il pericolo è infatti quello di raccontare una realtà fin troppo edulcorata rispetto alle condizioni, spesso molto precarie, del nostro sistema penitenziario.

Pur con una visione realistica, tuttavia, è innegabile che proprio l’ambiente carcerario, stando ai dati presentati, rappresenta un microcosmo in cui è possibile intercettare per la cultura, per l’arte, per la musica, per il teatro, e per la formazione formale e informale, nuovi potenziali utenti, visitatori, fruitori, studenti.

Chiaramente, bisogna agire con la consapevolezza che la gran parte degli interventi potrà produrre risultati scarsi o nulli rispetto a quelli che sarebbe possibile ottenere concentrando sforzi, risorse e impegno presso altri target.

Ciò conduce ad una valutazione di tipo politico che guarda a come si intende il ruolo dello Stato. Dato che nel nostro Paese, però, l’orientamento, in termini di cultura e formazione è quello di garantire a tutti un servizio quanto più possibile accessibile, allora l’implementazione di politiche culturali che abbiano come target specifico le carceri non può che essere necessaria.

Progetti culturali per il carcere

Esistono molti progetti che vanno in questa direttrice, ma forse qualcosa di più è possibile.

E questo qualcosa in più, deve necessariamente prevedere un intervento diretto da parte di coloro che popolano il mondo culturale. Si tratta, in effetti, di strutturare una nuova narrazione e vedere nei detenuti, e nella popolazione che popola le nostre carceri, un nuovo target potenziale. Critico, difficile, ma che può rappresentare una “domanda di cultura” ancora poco stimolata.

In questa visione, l’archeologia rappresenta un esempio estremamente utile: si tratta infatti di una delle discipline che, eccezion fatta per i grandi attrattori, spesso più fatica a creare una relazione duratura di interesse con i cittadini, ma che se ben veicolata, può invece rappresentare un elemento dell’offerta culturale estremamente funzionale.

Perché l’archeologia non è solo fatta di anfiteatri, e di storie edificanti. Così come il nostro presente, anche le società del nostro passato sono frammentarie, divise in gruppi sociali estremamente disomogenei. L’archeologia può dunque entrare nelle carceri parlando di carceri, parlando di schiavitù, di vite ordinarie. Parlando dei sistemi che venivano utilizzati in passato per mantenere l’ordine sociale.

Raccontando la storia della vita delle persone a partire dagli oggetti che hanno lasciato.

Sono poche le discipline culturali che possono con altrettanta efficacia costruire un rapporto con persone che, per qualsivoglia motivo, hanno intrapreso percorsi che confliggono con quello che la nostra società ha stabilito essere il percorso che meglio garantisce l’ordine sociale. Basta quindi cambiare la prospettiva e iniziare a considerare quelle persone un target importantissimo per la cultura. Questo potrebbe altresì insegnare al nostro sistema culturale un po’ di umiltà, e comprendere che la cultura, così come qualsiasi altra forma di contenuto, deve contendersi l’attenzione di persone molto differenti tra loro. C’è molto da fare. Se vogliamo.

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