Archeologia e start up. Sono molteplici i settori produttivi che sono stati coinvolti, negli ultimi anni, dalla grande espansione del fenomeno delle start-up. Si tratta, a ben vedere, di un fenomeno che ha conosciuto importante diffusione nel nostro Paese anche nel cosiddetto comparto delle Industrie Culturali e Creative, rappresentando, nei fatti, una combinazione molto efficace per il nostro contesto economico, declinando una particolare forma di sviluppo economico che ha conosciuto un incrementale interesse nei mercati internazionali, con l’esigenza tutta nostrana di creare nuove forme di imprenditorialità che in qualche modo sopperissero la bassa domanda di lavoro.
In questo scenario, il settore archeologico, pur non essendo rimasto del tutto estraneo alla vicenda, non ha nemmeno brillato per vitalità, evidenza che richiede, probabilmente, una riflessione più approfondita.
Non esiste, infatti, una motivazione univoca che riesca ad illustrare in modo totalizzante le ragioni per cui l’archeologia è stata sinora scarsamente coinvolta nei nuovi fenomeni imprenditoriali. Né sono in essere studi che abbiano indagato l’argomento in modo significativo. Sicuramente, però, è possibile identificare delle condizioni che, in generale, potrebbero in qualche modo aiutare ad inquadrare meglio il fenomeno.
Tra le condizioni che possono influire sulle (poche) dinamiche imprenditoriali, c’è sicuramente la distanza tra i modelli di business tipici delle start-up ed i sistemi di creazione del valore in ambito archeologico. Il settore delle start-up, infatti, si è sviluppato in un contesto caratterizzato dall’elevata densità e presenza di investitori: questa circostanza, in altri termini, ha condotto alla definizione di progetti imprenditoriali con ritorni economici potenzialmente molto elevati rispetto all’investimento iniziale e con tempi di recupero dell’investimento piuttosto brevi. A partire da queste condizioni è quindi sorto un modello che si è poi diffuso su scala globale, e non è un caso che sia stato proprio il settore tecnologico ad esserne maggiormente coinvolto: alta capacità di ritorno economico, tempi rapidi di creazione di valore. Caratteristiche che rendono evidentemente difficile adattare il segmento archeologico “puro” a queste dinamiche di investimento.
Al riguardo, però, è bene precisare che né “difficile” significhi “impossibile”, né che queste riflessioni possano essere estese a tutto ciò che concerne l’archeologia: molti archeologi trascorrono la propria esistenza cooperando con professionisti provenienti dai più disparati settori, molti dei quali anche di tipo prettamente tecnologico. Ciò significa quindi che una potenziale applicazione tecnologica per l’archeologia potrebbe essere sicuramente oggetto di interesse da parte degli investitori (e di fatto, questa categoria di attività è quella che prevalentemente viene sviluppata a livello internazionale).
Ritornando al nostro Paese, quindi, il basso coinvolgimento dell’archeologia al fenomeno delle start-up deve quindi trovare anche altre motivazioni. Una di queste è sicuramente la struttura del mercato, che vede prevalentemente la presenza di Università e Centri di Ricerca, e una bassa partecipazione da parte del privato, il cui coinvolgimento in alcune attività archeologiche, si può dire che eufemisticamente non sia pienamente caldeggiato.
Probabilmente correlato a questo tipo di evidenza è anche l’assenza, ad esempio, di insegnamenti dedicati al management all’interno delle carriere accademiche italiane. Condizioni che, combinate, contribuiscono a consolidare una distanza tra i candidati archeologi e le discipline economiche o manageriali, gli uni accusati di volere a tutti i costi mercificare la cultura, gli altri additati come soggetti che vivono di sola ricerca.
A queste condizioni se ne potrebbero aggiungere molte altre, ma già queste in qualche modo riescono a definire un quadro generale della condizione del nostro Paese. Condizione che, beninteso, non necessariamente deve essere cambiata. Il nostro Paese ha raggiunto in questo senso un equilibrio, e questo equilibrio potrebbe anche restare immutato, “se”.
Quel “se” fa la differenza. Perché mantenere inalterato un equilibrio è utile quando tale equilibrio permette di valorizzare appieno le risorse che sono presenti nel nostro territorio, se tale equilibrio permette di dare stabilità occupazionale ad una significativa percentuale dei laureati in archeologia, se grazie a tale equilibrio il settore archeologico è in grado di diffondere in modo efficace le informazioni e le conoscenze ai cittadini, se, ancora, tale equilibrio consente di poter adeguatamente far fronte a tutte le esigenze di tutela e di conservazione delle nostre aree archeologiche.
Dato che, quindi, al momento, pare piuttosto chiaro che l’attuale equilibrio, o meglio detto, che le premesse che conformano l’attuale equilibrio sistemico non conducono né ad una corretta tutela e conservazione, né ad una efficace valorizzazione del nostro Patrimonio, e dal momento che il settore resta per lo più caratterizzato da un elevato livello di precarietà lavorativa, e dall’ingente ricorso ad organizzazioni che somministrano personale spesso in condizioni di vantaggio rispetto ad altri soggetti, forse le premesse che hanno condotto nel tempo alla definizione di questo equilibrio, potrebbero anche essere messe in discussione.
Soprattutto se si considera che la “nuova imprenditorialità” può trovare differenti forme di sviluppo: da un lato la dinamica tipica delle start-up, ma dall’altro, anche la dinamica tipica di chi “apre una nuova società”, non con l’obiettivo di creare dei grandi margini in pochissimo tempo, ma con l’obiettivo di costruire, nel tempo, un valore aggiunto per sé stesso, per i lavoratori coinvolti, e per il territorio.
Diffondere, già durante gli anni universitari, una cultura “imprenditoriale”, non implica, come molti ancora tendono a pensare, voler trasformare gli archeologi in “creatori di centri commerciali dell’archeologia”. Significa piuttosto rendere visibili delle condizioni di interazione tra archeologia e “mondo contemporaneo”, che nei fatti esistono già.
Si tratta, in altri termini, di sviluppare la possibilità di pensare “fuori dall’esistente”, per riuscire a trovare soluzioni che potrebbero portare anche ad idee nuove, in grado di raggiungere pubblici differenti dagli appassionati, senza per questo dover ridurre il rigore scientifico ma anzi, cercando di divulgare le proprie attività in modo ben più serio di quanto spesso condotto dagli stessi soggetti che “mettono in guardia” dalla mercificazione, e che poi intitolano qualunque ritrovamento come “una scoperta che cambierà la nostra idea della storia”.
L’archeologia, come tutti gli elementi culturali, per avere valore, deve essere “condivisa”. L’idea che l’archeologia debba essere appannaggio di pochi appassionati non agevola nessuno: l’archeologia dovrebbe essere dei cittadini, che quando camminano per la strada riconoscono in un ritrovamento, in un’area, un elemento della propria identità; dovrebbe essere dei bambini, che vedono un masso, ma poi capiscono che dietro ad un masso c’è molto di più; dovrebbe essere degli anziani, che dedicano il proprio tempo libero a conservare e a tramandare la propria storia, familiare e territoriale; dovrebbe essere degli imprenditori, che hanno deciso di rischiare il proprio denaro in un determinato territorio perché ne vedono potenzialità che spesso altre persone tendono a declinare.
L’idea che “tanto i non appassionati non capirebbero” è la stessa idea che fa sì che i nostri cartelloni teatrali reiterano sempre gli stessi spettacoli, è la stessa idea che è dietro la creazione dei palinsesti non propriamente brillanti della nostra televisione pubblica; è la stessa idea di chi in una conversazione si cela dietro il “tanto non capiresti” per poter mettersi al riparo anche da critiche ben fondate mosse da chi ha sistemi valoriali differenti.
Non è detto che sviluppando una maggiore cultura imprenditoriale la nostra archeologia risolva tutti i suoi problemi. Però è possibile, quantomeno possibile, che sviluppando una maggiore cultura imprenditoriale venga fornita agli archeologi una visione più ampia della nostra società, che permette di leggere il territorio non solo per ciò che quel territorio era, ma anche per ciò che quel territorio è diventato.
Avviare start-up archeologiche è possibile. Probabilmente nessuna di esse potrà entrare nelle top100 per finanziamenti ottenuti, ma potrebbe trovare invece una sorta di azionariato diffuso, condiviso tra cittadini, famiglie, risparmiatori, che sentono che l’impresa di 4-5 ragazzi può aiutare quel loro territorio ad essere meglio compreso, più curato.
Perché alle volte basta soltanto rendersi conto che è la nostra visione e la nostra visione soltanto a rendere impossibili alcune cose, e che cambiando “premesse” possano sembrare palesi delle soluzioni che dal nostro precedente punto di vista, erano “prospettivamente” nascoste dai paletti che noi stessi ci eravamo posti.
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