giovedì 28 Marzo 2024

Che la cultura riesca dove religione e partiti hanno ormai fallito

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Pochi se ne ricorderanno, ma qualche anno fa, per la prima volta, il numero di persone che nel mondo viveva in una città ha superato il numero di persone che viveva al di fuori di esse.

L’anno scorso l’ONU anticipava uno scenario in base al quale, entro il 2050, due terzi della popolazione vivrà in una città.

Sono dati che devono far riflettere, perché a prescindere dalla loro accuratezza e dalla capacità cartomantica di alcune stime, è un dato di fatto che una dimensione importante della popolazione mondiale vive in una città.

Di fronte a queste evidenze, non si può non riflettere sulla dimensione urbana, e sulla capacità delle città di tener fede alla loro stretta relazione con il concetto di comunità.

In molte delle nostre città, e non solo delle megalopoli globali, ma anche in moltissime piccole e medie cittadine del nostro Paese, la comunità tende ad essere una caratteristica sempre più rarefatta. Le occasioni di incontro tra cittadini, quelli che molte discipline definiscono come riti collettivi, sono divenuti sempre meno rappresentativi.

Emuli dei meccanismi di profilazione della domanda, oggi anche i nostri riti sociali si rivolgono a target sempre più specifici, con il risultato che, oggi, nella nostra vita quotidiana, sono sempre più rare le occasioni di entrare attivamente in contatto con persone differenti dal cluster di popolazione che rappresentiamo.

Dall’età scolastica in poi, ogni scelta di vita che compiamo tende a farci incontrare con persone via via più simili a noi. Non è un elemento da prendere sotto gamba, soprattutto in una logica di sviluppo futuro.

Prevedere, come fa l’ONU, un incremento così importante della quota di abitanti-delle-città, significa prevedere anche un’estensione delle città, un aumento della capacità di “ospitalità” delle stesse. Ciò pone indubbiamente quesiti di natura architettonica, urbanistica, tecnologica, ma pone altresì quesiti sul ruolo che la cultura debba necessariamente giocare all’interno delle stesse. Incrementare il numero di abitazioni non significa rendere più grande una città. La comunità è un elemento centrale nello sviluppo societario. E questo è vero ancor più nell’epoca in cui oggi viviamo.

L’idea di futuro che bisogna sviluppare non può prescindere dall’appartenenza ad un gruppo eterogeneo di persone.

Perché se si finisce con l’appartenere soltanto ad un gruppo “omogeneo” di persone, allora è inevitabile che tra questi “gruppi” sorgano potenziali conflitti. O che, ed è forse peggio, che questi gruppi non si incontrino mai. Durante gran parte della storia del mondo, gran parte della funzione rituale societaria è stata assolta dalle dimensioni religiose: la “messa” cattolica,  per citare la religione più longeva nel nostro Paese, poneva insieme persone differenti, mantenendone e a tratti esaltandone le differenze, ma svolgeva l’importante compito di affermare, a tutti gli abitanti di un piccolo paesino o di un medesimo quartiere urbano, l’esistenza di un legame, per quanto labile, tra tutti loro: il loro essere comunità.

Chiaro, ancora oggi la messa cristiana svolge questo compito. Ma oggi in Italia non c’è più un monopolio deistico, che accomuni “tutti”. Senza contare i “non praticanti”, e coloro che invece non hanno alcuna affiliazione religiosa.

Per pochi anni, questa funzione è stata svolta dai movimenti politici. Ma nel loro caso è ancor più palese che tali aggregazioni non siano più rappresentative della società nel suo complesso.

La cultura potrebbe, e forse dovrebbe, avviare un’azione in questa direzione, scrollandosi di dosso il trauma dei totalitarismi, e cercando di far emergere, dalle specificità del territorio,, delle modalità aggregative in grado di “accomunare”, di riunione persone di differente estrazione sociale, e di differenti credi (religiosi, politici, consumistici).

Questo tipo di risultato non può essere in alcun modo “imposto” dall’alto, ma deve necessariamente emergere dai singoli territori. Dall’alto, a livello politico, deve però essere incentivato, riuscendo a trovare le corrette metriche di valutazione dei finanziamenti. Soprattutto, può essere incentivato attraverso impegni pluriennali, che consentano dunque una corretta pianificazione delle attività.

In altri termini, assumendo una “volontà” e non una direzione “politica”. Chiaramente, non possiamo nemmeno aspettarci che una tale capacità attrattiva possa essere rappresentata, ad esempio, da eventi esclusivi. La cultura dovrà essere sufficientemente consapevole della propria importanza da riuscire anche a rinunciare alla propria affermazione elitaria. Ma avviare questi riti, soprattutto alla luce di una sempre crescente urbanizzazione della società, è sicuramente necessario.

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