giovedì 18 Aprile 2024

Archeologia e gaming al di là della comunicazione

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Che l’archeologia possa rappresentare una “materia” da videogiochi, è sempre stato chiaro e lampante: da un lato la capacità evocativa della disciplina, dall’altro le sue stesse modalità di indagine, presentano caratteristiche incredibilmente affini a molteplici dimensioni del gaming.

Eppure il suo “utilizzo” è ancora molto poco approfondito, se non per casi che, tuttavia, strizzano più l’occhio alla comunicazione che all’esperienza di gioco. Questo elemento merita forse un maggiore approfondimento. Spesso, quando si parla di videogame in contesti di tipo culturale, si rischia di non individuare con esattezza l’esperienza di cui si sta parlando.

Molti, infatti, pensano ai videogame e alle “esperienze di gioco” tipiche degli anni ’90 e 2000, quando si è assistito all’esplosione degli arcade (nelle sale giochi e nei bari del tempo) e delle prime console. Sebbene molte dinamiche di allora siano ancora presenti in tantissimi videogame, come i giochi “sparatutto” o di “combattimento”, lo sviluppo del segmento ha arricchito l’offerta con esperienze di gioco completamente differenti, in cui gli elementi narrativi hanno un peso maggiore rispetto anche all’azione stessa.

In una recente intervista, Auriea Harvey, artista digitale e già videogame designer, esprime bene questo concetto: “I videogame designer utilizzano un approccio artistico e la fiction per creare una situazione inedita [con lo scopo di] “spingere le persone a costruire qualcosa di fantastico, all’interno di un mondo che è stato immaginato e scritto”.

Non è un caso, dunque, che gli sviluppi più interessanti relativi al rapporto tra “archeologia” e “videogame”, provengano proprio dal mondo delle industrie di videogiochi.

Un caso di interesse, in questo senso, è il gioco “Heaven’s Vault”: un videogioco prodotto  per PC (2019) e per Nintendo Switch (2021) dalla Inkle, una società di produzione britannica. In termini tecnici, si tratta di un adventure-game, un genere in cui il giocatore veste i panni del protagonista di una storia che si sviluppa su dinamiche di esplorazione, di interazione con gli altri personaggi e mediante la risoluzione di enigmi.

Nel caso di Heaven’s Vault, l’avventura è completamente centrata sull’archeologia e gran parte delle dinamiche del gioco sono volte a “tradurre antiche iscrizioni” che, se non correttamente interpretate non condurranno alla famosa schermata “game-over” ma ad un differente sviluppo della storia, che avrà quindi, un dipanarsi che si differenzia sulla base delle scelte che si compiono durante il gioco. Scelte di natura etica, o che sono collegate all’attenzione che si presta durante i dialoghi tra la protagonista e i personaggi secondari, o che riguardano, ad esempio, l’esplorazione di “aree” del gioco che pur se non “necessarie” ai fini della trama principale, possono aiutare a comprendere meglio le iscrizioni, e quindi ad interpretarle in modo corretto.

È importante sottolineare che queste informazioni, queste “interpretazioni” da cui emerge con chiarezza la “natura narrativa” dell’intera esperienza, non sono l’espressione di un’interpretazione “esterna” e “intellettualizzante”, ma sono le informazioni e le interpretazioni che provengono da differenti “recensioni” che la comunità dei “gamer” (comunità eterogenea ed esigentissima) ha pubblicato sul web.

Per quanto dunque il “gioco” trasporti il player all’interno di un universo immaginifico, composto da galassie e lune, e per quanto la protagonista del gioco sia un’archeologa chiamata ad esplorare i copri celesti di un’area chiamata Nebula, al centro dell’esperienza c’è lo sviluppo di una storia, che il giocatore è chiamato a “costruire” attraverso l’individuazione di rinvenimenti e alla loro corretta interpretazione. In questo senso, il legame con l’archeologia non è soltanto di natura “contestuale” ma è parte della dinamica di gioco in sé. Se in Tomb Raider, pur vestendo i panni di un’archeologa (l’ormai icona Lara Croft), il giocatore vive un’esperienza che si sviluppa come un film d’azione, qui il richiamo all’archeologia è presente anche nella metodologia di gioco.

Le conclusioni cui portano queste riflessioni se riportate all’interno del mondo archeologico, sono numerose.

In primo luogo, va sottolineato come, nonostante gli sforzi che negli ultimi anni siano stati condotti, il connubio tra archeologia e le nuove espressioni narrative abilitate dalle nuove tecnologie si sia principalmente concentrato sulle singole “istituzioni”: in alcuni casi guardando al gaming, in molti altri invece realizzando esclusivamente app per la fruizione museale.

In secondo luogo, ed è questo forse un elemento ancora più rilevante, gli sforzi sinora condotti si sono concentrati sull’elemento tecnologico piuttosto che sulle potenzialità narrative che “il mezzo tecnologico” forniva.

Eppure, come dimostra il caso di Heaven’s Vault, che, per intenderci, ha un tasso di gradimento altissimo tra i giocatori, il connubio tra archeologia e “gioco“ (non solo e non necessariamente “video”) può essere approfondito anche in altre modalità, costruendo esperienze narrative differenti, tanto nel mondo analogico che in quello digitale.

Più che investire risorse in una app che simuli in qualche modo il comportamento di una qualsiasi audioguida, si potrebbero invece iniziare ad investire risorse in prodotti culturali in grado di far vivere l’esperienza archeologica in modo differente.

Si tratta di acquisire le nuove possibilità narrative offerte dalle nuove tecnologie (siano esse emergenti o consolidate), e costruire un’esperienza di fruizione diversa, che trasporti i partecipanti, siano essi visitatori di un museo archeologico o siano essi i giocatori di un videogame indipendente, in un “mondo” diverso, la cui interpretazione mostri loro come “i meccanismi di indagine” possano portare ad una nuova forma di osservazione anche della nostra vita quotidiana.

La grande opportunità della tecnologia non è quella di tradurre in ambito digitale qualcosa che già esisteva.  La grande opportunità della tecnologia è comprendere come le possibilità offerte dai nuovi media, possano essere utilizzate per realizzare qualcosa di nuovo.

Il limite reale sinora incontrato è l’autoreferenzialità delle singole istituzioni. Al centro dell’intero processo sono state infatti le istituzioni e non la “narrativa” che invece dovrebbero trasmettere.

Ma per rendere davvero innovativo il rapporto tra archeologia e tecnologia, più che “i capitali”, servono immaginazione, e la volontà di mettere la “narrazione” in primo piano.

Un buon prodotto “narrativo” e “innovativo” emergerà soltanto se i “partner” del progetto sono individuati e selezionati sulla base delle esigenze del racconto, mentre oggi si tende a “limitare il racconto” sulla base dei partner selezionati. Ma “limitare” il racconto tenendo in considerazione i “partner” è quello che si fa quando si fa “comunicazione”. Svelare “mondi” è una cosa diversa.

 

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