Potremmo cavarcela così: Gabriel Zuchtriegel, archeologo che conosce bene Paestum perché ci ha scavato e ha diretto il suo Parco Archeologico (assieme a Velia), ha scritto una guida della città antica edita ne “I luoghi dell’Archeologia” (Carocci Editore). È sintetica, 140 pagine, scritta bene ed aggiornatissima. Potremmo anche dire che, visto che ora dirige Pompei, il dottor Zuchtriegel sa anche cavarsela molto bene a livello di comunicazione e di gestione. Scrivendo quanto sopra non mentiremmo, ma non avremmo fatto bene il nostro lavoro, che è quello di informarvi compiutamente. Perché in realtà questa guida, o meglio un’introduzione a Paestum, non è un’opera di divulgazione, e tale evidentemente non vuole essere nelle intenzioni del suo autore. Si tratta in effetti, con la “scusa” di Paestum, che viene ben descritta nei suoi tratti essenziali e più affascinanti, di un piccolo manifesto, e neppure troppo “omeopatico”, sul ruolo dell’archeologia e degli archeologi nel mondo contemporaneo.
Paestum, ci ricorda Zuchtriegel, rappresenta nell’archeologia e nella storia dell’arte antica, il punto di partenza di molte cose: innanzitutto delle operazioni teoriche di Winckelmann. Il grande intellettuale, nel Settecento, partendo anche dai templi pestani elabora il modello di storia dell’arte che vede al centro del suo sviluppo l’arte greca, ed in particolare la “purezza” del dorico. Poi crea quell’idea di “popoli mediterranei” che procedono a diverse velocità, alcuni più avanzati, altri di minore peso culturale in tema di originalità, di capacità espressive e di “civiltà”.
Il sito di Paestum, quindi, diventa centrale nel momento della “riscoperta” dell’arte antica nel XVIII secolo, salvo venire un po’ marginalizzato, come periferia greca, quando dopo l’indipendenza del nuovo stato ellenico i viaggi intellettuali, nelle terre strappate alla lunga dominazione ottomana, divengono più facili e attraenti per le élite europee.
Zuchtriegel spiega bene come le ricerche archeologiche su Posidonia-Paestum ci abbiano raccontato un’altra cosa, o meglio molte altre cose. Come Paestum vada tolta dalla scatola che la racchiudeva, quella della ”archeologia greca” o “magno-greca” e messa invece in un capitolo della storia mediterranea interconnesso tra molti popoli, con “i templi dorici che facevano parte di un mondo variopinto e multiculturale”, con un “ruolo della città come nodo di una rete mediterranea”, dove “la saggezza e la scienza dell’Egitto e dell’Oriente; i rapporti con la Grecia e con la Sicilia, i contatti con le culture italiche e con gli Etruschi che, nel vicino centro urbano di Pontecagnano, avevano un avamposto importante; le successive trasformazioni della città a causa dell’espansione italica prima, e romana poi” servono a rendere Paestum un esempio emblematico di un mondo di scambi, migrazioni e contatti che vanno molto oltre il concetto di colonia di questa o di quella città, di primogenitura di fondazione e dove lingue, ornamenti, monumenti, affondano contorti come radici in un terreno roccioso.
Da archeologo, dopo aver fatto un esame critico (e prezioso) delle fonti, ci porta per mano sinteticamente in un percorso di testimonianze materiali, che Zuchtriegel premette di usare in chiave antropologica per raccontare il passato e collegarlo alla contemporaneità, in modo dialogante.
Rifiuta esplicitamente il termine “divulgazione”, praticamente musica per noi di ArchaeoReporter. Divulgazione – spiega – è un “termine che rende bene l’idea del sapere specialistico riservato agli addetti che diffondono la loro conoscenza tra il ‘vulgus’, il popolo laico (vulgus è la radice del termine ‘divulgazione’). Il modello di stampo divulgatorio è unidirezionale: l’archeologo insegna, il pubblico recepisce”. E, così facendo, non dialoga con la società. La sfida, sostiene Zuchtrieger, è quella di un’archeologia circolare, una prassi archeologica che “non bada solo all’output (scientifico, economico, promozionale ecc.), ma anche al fatto che ogni singolo aspetto del rapporto tra archeologia, società e ambiente sia parte di un cerchio fluido, dove non esiste una gerarchia tra ricerca, tutela, e fruizione”. Lo ripetiamo, musica, ma – lo sappiamo bene – musica per nulla facile da essere suonata e diretta.
Quindi Paestum, in questo libro che l’autore ha utilizzato come cavallo di Troia per raccontare la sua idea di archeologia, è anche l’esempio di come la ricerca, scavando in questo mondo tra Greci, Lucani, Italici vari, Etruschi e Romani, vada a intaccare le certezze tra “purezza” (del dorico) e commistione, tra identità (Greca? Romana?) e alterità (gli altri, gli Italici, gli Etruschi, anche il mondo ad Oriente). E come l’archeologia continui ad essere, nelle mani di chi ne sappia sfruttare il metodo scientifico, un’ottima occasione per dialogare con la contemporaneità.
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