Negli ultimi anni, complici anche le restrizioni per la crisi sanitaria e il successivo “timore” ad intraprendere viaggi di lunga percorrenza, molti italiani hanno sperimentato una progressiva riscoperta del valore del proprio territorio. Sebbene tale trend abbia conosciuto una sicura spinta verso l’alto anche a fronte delle circostanze pandemiche, è fuor di dubbio che l’attenzione verso il territorio, dal punto di vista culturale e turistico, è una dimensione che dalla seconda metà del 2010 è andata via via rafforzandosi tra i cittadini del Bel Paese.
Negli ultimi anni, tuttavia, questo percorso ha acquisito una dimensione più “strutturata”: a partire dal fenomeno turistico, infatti, l’attenzione nei confronti del proprio territorio ha iniziato ad acquisire anche aspetti più tipicamente culturali. Flussi turistici ed economici hanno così veicolato l’attenzione verso un Patrimonio meno noto del nostro Paese, che, a sua volta, ha veicolato l’attenzione dapprima dei cittadini e poi, di conseguenza, anche dei decisori pubblici e delle politiche centrali, come dimostrato dalla rinnovata attenzione verso i borghi, ai quali il Ministero della Cultura ha recentemente dedicato un importante capitolo di spesa del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
L’Italia “interna” si trova, dunque, oggi, a vivere una importante opportunità di sviluppo, in cui comuni di piccole e medie dimensioni, parchi naturalistici, gruppi di azione locale e altre organizzazioni pubbliche e private possono avviare un’azione di riposizionamento strategico, non solo in una logica di incremento dei flussi turistici tradizionali (turismo enogastronomico, naturalistico, slow, ecc.), ma anche in una prospettiva di creazione di un rapporto continuativo con gli abitanti del proprio territorio di riferimento.
È proprio in questa duplice valenza (attrattività turistica – attrattività culturale) che va individuata la vera opportunità di sviluppo dei territori “minori”, ed è un’opportunità che supera le semplici dimensioni del “consumo”.
Ad essere in gioco, in realtà, è una nuova riconfigurazione di “senso” di questi territori, che sempre più frequentemente si affermano come potenziali scenari di nuovi modi dell’abitare del nostro Paese, che, giova ricordarlo, è prevalentemente composto da comuni con meno di 10.000 abitanti. Assumere questa prospettiva è dunque essenziale per la corretta comprensione delle priorità e delle sfide che devono affrontare oggi quei soggetti sinora impropriamente ritenuti “minori” o, in ogni caso, lontani dai corridoi standard del turismo delle Città d’Arte.
Una prospettiva di questo tipo, ad esempio, comprende che l’incremento dell’afflusso turistico sia un risultato positivo che tuttavia deve essere gestito in modo strumentale al complessivo sviluppo del territorio nella sua interezza: un mezzo per incrementare i flussi economici in entrata, e altresì un mezzo per far “rivalutare” ai cittadini il proprio territorio. Al contempo, assumere questa prospettiva implica altresì una ridefinizione strategica delle proprie attività e dell’insieme di strumenti e pratiche che è necessario porre in essere per creare maggiore valore aggiunto. Il nostro territorio vanta una enorme ricchezza in termini culturali, naturalistici e archeologici; ricchezza che spesso viene “genericamente riconosciuta” (quante volte abbiamo sentito persone ripetere sconsolate: “ah, se questa ‘cosa’ fosse in Germania!”), ma poco o per niente “conosciuta”.
In questa logica, diviene dunque fondamentale, per i soggetti chiamati oggi a valorizzare il nostro patrimonio, instaurare un rapporto diverso con il territorio, anche ricorrendo a tecniche di segmentazione della domanda e di estensione delle catene di produzione del valore (economico e non economico).
Soprattutto, è essenziale che questa nuova consapevolezza generi nuova conoscenza, e non degeneri nella redazione di “attraenti quanto inutili” documenti strategici destinati ad abbellire, con i loro dorsi colorati, le librerie degli uffici.
Deve essere chiaro, insomma, che non abbiamo bisogno di nuovi convegni, di nuove tavole rotonde o di stati generali: abbiamo bisogno di azioni concrete, talvolta “banali”, che però spesso non raccolgono l’attenzione del pubblico perché non hanno nomi “sexy” o altisonanti. Abbiamo bisogno di una rete di strumenti che consenta ai soggetti gestori e alle classe dirigenti di sapere quante persone visitano il proprio territorio, quanto spesso, per quali ragioni. Abbiamo bisogno di profilare i visitatori, strutturando politiche di incentivi per comprendere la fascia “di pubblico” attuale e potenziale.
Ne abbiamo bisogno per costruire un’offerta culturale varia, che riesca a parlare tanto al visitatore sporadico quanto al cittadino che ama passeggiare o andare in bici nel parco naturalistico vicino casa, e abbiamo bisogno di comprendere quali attività risultino attrattive per l’una e per l’altra categoria di interlocutore. Ne abbiamo bisogno, perché questo tipo di conoscenza ci consente di incrementare l’efficacia dell’azione culturale, ma anche di poter avviare un’interlocuzione nuova con il tessuto imprenditoriale, incentivando una partecipazione che permetta al privato di sentirsi partecipe dello sviluppo territoriale, e non solo mero finanziatore.
Abbiamo bisogno di sperimentare nuovi approcci di coinvolgimento della cittadinanza, anche demandando la gestione di “pezzi” del nostro territorio, ridando finalmente spessore e significato a quel concetto di “bene pubblico”, che ormai ha smesso di essere interpretato come “è anche tuo”, ed ha finito col significare “è del “settore pubblico”, generando uno schema comportale di “completa delega” delle responsabilità, e riducendo quindi il grande apporto che invece i cittadini potrebbero garantire ai nostri spazi.
Abbiamo bisogno di far comprendere alle persone che, nella storia che contraddistingue il nostro Paese, tutte le risorse hanno avuto una loro valenza strategica: che la creazione di un abitato non era dovuta al caso, ma alle risorse che era possibile sfruttare, e che c’è un filo rosso che lega le cave di marmo con l’affermazione di un centro abitato, di un’economia di scambio, e una connessione culturale che porta alla realizzazione delle opere d’arte e d’ingegno che oggi visitiamo nei musei.
In questo quadro, acquisire prospettive di management è molto più che una semplice necessità: questo tipo di sviluppo non può essere affidato esclusivamente a politiche di incremento della spesa pubblica, ma deve prevedere dei ritorni economici, in grado di garantire una crescita che sia sempre più “autofinanziata”, non solo perché il nostro Paese non può permettersi una spesa che non sia supportata da una crescita dell’economia reale, ma anche e soprattutto perché la capacità di generare ricavi, flussi di cassa e, quindi, maggiore capacità occupazionale è una delle componenti che il territorio, nel suo complesso, deve perseguire.