Quando si parla di tesori e di archeologia nella stessa frase, è inevitabile che a chi è nato prima del ’90 venga irrimediabilmente in mente Indiana Jones: avventure, tesori nascosti, ministeri degli interni pronti a finanziare ricerche per riscrivere pezzi di storia delle nazioni a fini di propaganda. Se per un attimo, però, lasciamo Jones al suo posto, vale a dire nell’alveo degli intoccabili dell’immaginario collettivo di una generazione, ci rendiamo conto che tutta l’archeologia ha preso la metafora dell’archeologo avventuroso un pò troppo alla lettera e che ripensare tale metafora significa estendere il ruolo che l’archeologia ha nella nostra società.
Il “tesoro” di Indiana Jones non è il “forziere”: ma la conoscenza ritrovata. Il lavoro dell’archeologo non è tanto (o soltanto) scoprire oggetti “che hanno valore in quanto tali”, ma riconoscere quegli oggetti che, per la loro testimonianza storica e culturale, possono assumere un valore reale nella nostra società, attraverso una concreta valorizzazione.
I “forzieri” sono quei “pezzi di muro”, quei “mattoni”, quei “frammenti di vaso” che senza la storia che raccontano avrebbero un valore minimo nel nostro mondo. È questo il potere alchemico dell’archeologia: restituire ai rinvenimenti, attraverso la conoscenza, un valore che, senza tale conoscenza, semplicemente non avrebbero.Per questo non basta esporre tali oggetti in una teca polverosa: da lì, sono parole che possono emozionare soltanto chi ne riconosce l’alfabeto. Per questo è necessario “condividere” e “costruire” intorno a tutta l’attività archeologica, una trasmissione di significato. Una volta assunta questa prospettiva, l’attuale pratica archeologica assume connotati incomprensibili: se la virtù dell’archeologo è la sua capacità di restituire valore attraverso la sua conoscenza, la presenza di “aree archeologiche semi-abbandonate” diviene una contraddizione in termini.
Se ci fosse una vera e piena consapevolezza dell’importanza che l’attività archeologica riveste nella vita delle persone, nascerebbero ovunque organizzazioni impegnate nella valorizzazione del proprio territorio. L’Archeologia non sarebbe solo “materia da universitari”, ma sarebbe anche “impresa”, creazione di servizi, sviluppo di comunicazione. Sarebbe un “comparto” delle cosiddette industrie culturali e creative in grado di cambiare davvero il concetto di “valorizzazione del territorio”.
Se ci fosse una vera e piena consapevolezza dell’importanza dell’attività archeologica, il più banale rinvenimento avrebbe in ogni caso un valore, in quanto permetterebbe ai cittadini di sapere qualcosa in più del territorio che abitano, favorire una maggiore aderenza identitaria, costruire un tassello aggiuntivo alla propria storia individuale e collettiva. Il più banale rinvenimento sarebbe dunque discusso nei bar, in coda alla cassa del supermercato, nella sala d’attesa del dentista.
Ci sarebbero team interdisciplinari a fondare imprese per valorizzare ciascuna delle aree archeologiche che abbiamo in Italia, contribuendo alla creazione di ricchezza culturale, ma anche alla creazione di ricchezza economica, di occupazione, di engagement con la popolazione. Perché la necessità di costruire un rapporto “paritario” con i cittadini, sarebbe chiara a tutti, così come sarebbe chiara a tutti l’esigenza di differenti competenze e di differenti ruoli: un Rettore, per il ruolo che riveste, non potrebbe mai assumere lo stesso linguaggio che invece può utilizzare uno studente, un volontario. Ancora, sarebbe chiaro a tutti che “comunicare” sarebbe soltanto “una” delle attività di valorizzazione, che andrebbe affiancata a conoscenze tecniche in termini di marketing, di gestione, così come di antropologia e di scienza dei materiali.
L’attuale pratica archeologica, invece, pare piuttosto distante da questa prospettiva, fino ad assomigliare piuttosto ad una accademica ricerca dell’oro, riducendo, nei fatti, il senso stesso dell’archeologia. Se trovo nel mio giardino un forziere con dentro monete d’oro, non mi serve un archeologo per capire che ho trovato qualcosa di valore. Mi serve per “misurare” il valore di quello che ho trovato. Ma questo è lavoro da periti. L’archeologia, è qualcosa di diverso.
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