giovedì 28 Marzo 2024

Quel che il Colosseo non può fare

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di Stefano Monti*

Negli ultimi anni, in un’ala degli addetti ai lavori, si è sempre più affermata una visione “autonoma” del nostro Patrimonio Culturale. Una visione che veda nello stesso una leva di sviluppo territoriale, piuttosto che una mera voce di costo nei bilanci delle Amministrazioni.

Eppure, nonostante le evidenze dimostrino come una corretta gestione degli asset culturali possa favorire processi di sviluppo culturale, sociale ed economico, i criteri di gestione del nostro Patrimonio hanno sempre più premiato un’interpretazione “turistica”, che vede di buon occhio l’incremento del numero di visitatori, anche se si tratta di visite once in a life time, vale a dire visite a luoghi che, almeno una volta nella vita, è necessario fare.

Lontano da questa prospettiva di “breve termine”, sono numerose le esperienze che invece lavorano su una differente “interpretazione” del Patrimonio Culturale. Una interpretazione che veda tale Patrimonio come una leva di sviluppo locale, in grado di incrementare il livello di conoscenza che i cittadini hanno della propria storia, dei luoghi in cui vivono, agendo contemporaneamente su un livello di soddisfazione personale e su un incremento del senso di appartenenza.

Un’interpretazione del nostro Patrimonio Culturale che vuole, in altri termini, evidenziare che il Patrimonio Culturale può essere sviluppo per la cittadinanza, anche quando tale sviluppo non rientra nelle mete più inflazionate del nostro Paese.

Questa interpretazione della cultura, e del patrimonio che abbiamo ereditato dal passato, intende valorizzare i nostri Siti Culturali rendendoli attrattivi anche in una logica di prossimità, favorendo meccanismi di fruizione ripetuta, stimolando la nascita di nuove imprese produttrici di beni e servizi collegati alla fruizione del Sito, agendo pertanto sul sistema economico-territoriale nella sua interezza, e non soltanto nell’ormai canonico segmento attività ricettive-ristorazione-caffetteria.

Il Parco Archeonatura di Fiavé (TN), esempio di integrazione tra sito archeologico e attività del territorio

DUE VISIONI DA CONCILIARE

Due visioni estremamente differenti: la prima, quella di natura tendenzialmente ministeriale, che mira a massimizzare gli introiti delle “big” della nostra Cultura; la seconda, che invece intercetta un bisogno culturale sempre più diffuso e che parte dagli Enti del Terzo Settore o dal tessuto produttivo, e che mira a creare uno sviluppo diversificato del patrimonio.

Due visioni che, oggi, sembrano talvolta inconciliabili, ma che hanno invece tutte le caratteristiche per essere, semplicemente, complementari: si tratta di definire un quadro gestionale chiaro, che permetta a privati e soggetti del terzo settore in possesso delle indispensabili competenze di poter gestire direttamente parti del nostro patrimonio culturale.

Si pensi, ad esempio, alle innumerevoli aree archeologiche che a guardarle oggi verrebbe da pensare che forse sarebbe stato meglio non riportare alla luce:  frammenti di conoscenza e di storie spogliati della propria funzione, del proprio ruolo, e semplicemente declassati al rango di pietre, massi, in alcuni casi, colori.

Perché un’area archeologica è tale se ha la capacità di “parlare” alle persone, raccontare ai cittadini un pezzetto della loro identità, fornire stimoli, riflessioni, riuscire ad emozionare, incuriosire.

Se non riesce a svolgere questa funzione, l’area archeologica perde di valore, anche agli occhi dei cittadini. E questo, che ci piaccia o meno, è tutta responsabilità del “mondo culturale”.

Possiamo difenderci come vogliamo, ma la realtà è che chiunque, al di là degli studi fatti, al di là del carattere, al di là del lavoro che svolge, dei gusti, o delle inclinazioni, chiunque conserva qualcosa del proprio passato. E chiunque, nel dover “liberare” spazio in cantina, nel buttare vecchie lettere, ritagli di giornale, persino oggetti inutili, ha sempre la sensazione di “distacco”.

Come è possibile, allora, che così tante persone finiscano con il considerare le aree archeologiche semplicemente degli ingombri? Dei ruderi che magari impediscono di poter fare una nuova strada, un nuovo parcheggio, un nuovo centro commerciale?

Semplicemente perché, nelle condizioni in cui versano, tali aree archeologiche sono esattamente quello. Ruderi. Che non raccontano nulla del passato, e che nel frattempo impediscono lo sviluppo del presente.

Il futuro della gestione del nostro Patrimonio Culturale non può permettere che quanto accaduto sinora si ripeta. È necessario che ci sia un quadro definito di regole, di strumenti giuridici, di elementi di monitoraggio, e una serie di strumenti anche di natura finanziaria che consentano ad organizzazioni del territorio di poter fare in modo che quei ruderi tornino ad avere senso.

Non si tratta semplicemente di un’operazione “nostalgia”, o di un sentimentalismo da archeologo. Il tema riguarda lo sviluppo territoriale, e più nel dettaglio, la capacità di poter creare valore a partire da un Patrimonio Culturale, per generare non solo un maggior senso culturale, una maggiore adesione identitaria, una maggiore consapevolezza storica, ma anche e soprattutto opportunità di lavoro, opportunità di “impresa”, capacità di generare effetti indiretti, a volte anche consistenti, sull’intera economia locale.

Attività per la quale, a volte, il settore pubblico semplicemente non può condurre per condizioni di evidente inadeguatezza strutturale.

La gestione tradizionale di un’area archeologica, a volte, è semplicemente troppo costosa per lo Stato, o per il Comune. È un dato di fatto. Esistono vincoli specifici, dal punto di vista contrattuale, dal punto di vista organizzativo, che ne rendono la gestione troppo onerosa.

Ci sono, tuttavia, altri modelli gestionali, schemi di partenariato tra pubblico e privato, modelli di valorizzazione speciali per il settore dei beni culturali, che consentono una migliore efficacia, una maggiore efficienza, un maggiore coinvolgimento dei cittadini e, in definitiva, che consentono di creare sviluppo a partire da questi “pezzi di storia” abbandonati.

Non è semplice: ci vuole una preparazione “importante”, ci vuole una competenza che si acquisisce sul campo, e ci vuole una capacità di visione strategica ed economica che non sempre viene sufficientemente stimolata nemmeno nelle Università.

I casi, nazionali ed internazionali, tuttavia dimostrano che, nelle opportune condizioni, questo passaggio di paradigma è possibile. Di fronte a tali casi, restare ancorati a vecchi modelli, restare bloccati su uno schema di intervento che ha così tante volte fallito, è semplicemente irresponsabile.

*Economista

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