Il destino dell’area archeologica e del museo di Altino (Venezia) è sicuramente quello di diventare in futuro un vero e proprio parco archeologico. La decisione di aver dato in concessione alcuni terreni agricoli ad un’azienda -per di più di giovani – che produrrà grani antichi – appare illuminata, sull’esempio di quanto avviene altrove, per esempio attorno agli scavi di Ostia. Queste “commistioni” tra produzione e tutela archeologica, d’altronde, sono più che benvenute, basti pensare all’olio di oliva prodotto sul Palatino, o alle vigne di Pompei. Chi ci guadagna? Tutti, e cerchiamo di vedere perchè.
L’area archeologica di Altino è vastissima: si tratta di una città, con le sue pertinenze, attrezzature portuali, necropoli. Edifici pubblici, come il teatro, edifici privati.
Cosa si vede di questa antica realtà urbana, emporio di primaria importanza dell’antichità? Si vede moltissimo nel museo nazionale, in mezzo all’area archeologica. Oppure si vede “poco”. Che poco non è. Si vede il basolato di una strada romana, alcuni importanti mosaici, i resti materiali di una porta cittadina, che un tempo metteva in relazione la città con il porto-canale. Poi si vedono campi, tanti, piatti, intensamente coltivati, frutto di bonifiche dalla metà dell’Ottocento in poi.


È un paesaggio di confine, tra laguna e terra, tra laboriosa “attività antropica”, come direbbero gli archeologi, e ovvio interesse della ricerca per un’area archeologica importantissima. Alcuni di questi terreni agricoli sono stati acquisiti dallo stato, uno tempo fa ed uno recentemente, passato dal demanio alla direzione regionale dei musei, fino al museo di Altino. A questo punto è arrivata la concessione degli stessi all’azienda agricola Anticamente, che si è impegnata a seguire rigorosamente i protocolli di tutela sotto la supervisione della Soprintendenza. Su questi campi nasceranno varietà di antichi cereali, a cominciare dal farro monococco, che ha sfamato per millenni generazioni di esseri umani. Ma anche altro, come il frumento Piave, sana varietà locale, veramente a chilometro zero, da riscoprire contro la generalizzazione globale dei grani industriali, devastanti per la varietà agricola e standardizzati e banalmente uguali per l’alimentazione. Parte di questi terreni è chiamata “campo Rialto“, e non a caso, perchè si rialza appunto al di sopra delle bonifiche circostanti, probabilmente un lacerto del paesaggio originario, pre-bonifica.
Ora un’altra risposta a una domanda piuttosto comune: come mai il terreno pubblico di un’area archeologica viene dato un concessione (decennale) a dei privati per coltivarlo invece che scavarlo e fare emergere la città?
Innanzitutto gli scavi e le ricerche ci sono, da anni, e ci saranno ancora. Scavare non significa “sbancare” ettari ed ettari di area archeologica per poi “tirare fuori” il teatro, i mosaici, le colonne e così via. Non lo si fa (o meglio, non lo si fa più) a Pompei, dove gli scavi di intere insulae e zone della città vengono fatti con molta prudenza e metodo, anche per lasciarli alle generazioni future di archeologi e alle sempre più raffinate tecniche di indagine. Non lo si fa neppure ad Altino, dove scavi pur importantissimi riguardano ovviamente zone limitate. E poi per un’altra fondamentale ragione. Ad Altino le indagini “non invasive”, ossia con gli strumenti, mostrano benissimo la pianta della città e molti dei principali edifici sotto il terreno
QUI IL RACCONTO DEL PROFESSOR MOZZI SULLA PIANTA DI ALTINO:
Ma spesso quello che mostrano sono le tracce degli edifici stessi. Quasi le loro “orme”. Per dirla semplicemente, l'”impronta” del basolato della strada romana. Basolato poi asportato nei secoli, e usato chissà per quali altri edifici o fondazioni più moderne. L’impronta del teatro. Ma non aspettiamoci le gradinate, la cavea perfettamente conservata, le statue e i mosaici a profuzione. Ci sono le “tracce”, che gli strumenti rilevano come se fossero “alterazioni” sotto il terreno agricolo. Ma allora non c’è più nulla? Tutt’altro, c’è moltissimo. Ci sono reperti, di varia natura. Un coccio in mano agli studiosi può aprire una finestra su rotte antiche, sul commercio tra sponde del Mediterraneo. Gli strati esistono ancora, e hanno una miriade di informazioni al loro interno. Poi in realtà in archeologia non si sa mai. Le sorprese sono lì per noi. La storia è lì, da leggere, e gli archeologi, assieme alle scienze che si possono applicare all’archeologia, sanno come decifrare questo “codice”, spesso frammentario, ma altrettanto spesso profondissimo, molto più degli strati da cui provengono.
Ecco perchè ci si può permettere, anzi, si “deve”, dare in concessione ad un’azienda agricola alcuni di questi terreni, per continuare a valorizzare il parco archeologico che verrà. Perchè i primi a sapere che l’archeologia ha senso solo nella contemporaneità sono proprio gli archeologi. Per loro l‘archeologia non è feticismo per reperti ma un mezzo per capire le dinamiche della storia attraverso le testimonianze materiali, fino ad arrivare alla contemporaneità. Unire i puntini. La macina antica ritrovata negli scavi e conservata al museo, nel proprio contesto, in un paesaggio che ritorna in parte a far germogliare gli stessi grani di millenni fa.
Ma un’azienda agricola, con i vomeri per le arature, non distrugge il terreno sottostante e i reperti?
Migliaia di anni di agricoltura in pianura padana hanno fatto proprio questo, sempre più in profondità. Gli archeologi chiamano i primi strati, che spesso vanno ben oltre il metro e mezzo, “US1”. Ossia l’unità stratigrafica che indica il “coltivo moderno“. In realtà questi millenni di attività agricola non hanno proprio sempre “distrutto” i reperti dei primi strati. Ci sono ancora, rimescolati più volte a stagione. Sono strati strappati dal loro contesto, tolti dalla loro posizione di origine: “non in giacitura primaria” dice sempre il codice da adepti degli archeologi, quindi meno leggibili, mischiati, una moneta medievale con un peso da telaio romano, una tessera di mosaico tardoantica… Eppure sono materiali preziosi. Per questo se chi coltiva è coinvolto nel progetto, sarà ben contento di segnalarli, senza “danni” per le sue coltivazioni. Un presidio. Nel caso della concessione di Altino le coltivazioni verranno fatte non andando oltre i 40 centimetri. Gli strati inferiori sono così abbondantemente preservati, come hanno tenuto a rimarcare , nella presentazione del progetto, Marianna Bressan direttrice Museo nazionale e area archeologica di Altino (Direzione regionale musei Veneto) e Masimo Dadà, il funzionario archeologo responsabile della tutela dell’area per la soprintendenza. Emanuela Carpani, soprintendente Archeologia, Belle arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna ha invece fatto comprendere la complessità delle “operazioni” di acquisto, trasferimento e valorizzazione dei terreni, per armonizzare sia lo sforzo di tutela dello Stato, con la voglia di far vivere, nel rispetto stesso della tutela, l’area archeologica nella sua “contemporaneità” agricola, turistica e paesaggistica.
QUI IL VIDEO-REPORTAGE SUL MUSEO DI ALTINO
Altino, la porta della Laguna quando Venezia non era ancora nata – VIDEO DOCUMENTARIO