giovedì 25 Aprile 2024

Giuliano Volpe: “Sul Colosseo si rischiava l’immobilismo”. “La spinta propulsiva della riforma sul patrimonio culturale si è fermata. Gravissimo che i ministeri della Cultura e Università non collaborino” – INTERVISTA

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Il progetto di ricostruzione dell’arena del Colosseo è argomento di discussione, anche feroce, tra gli addetti ai lavori. Il primo a proporlo al ministro Dario Franceschini, attraverso un articolo di Daniele Manacorda, fu Giuliano Volpe, attivissimo professore ordinario di archeologia a Foggia e già presidente del Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ dell’allora MiBACT , ora Ministero della cultura, dal 2014 al 2018. In questa intervista, partendo dall’anfiteatro Flavio, si arriva al nodo della questione: la riforma nel campo del patrimonio culturale. Il dibattito resta aperto, sulle nostre pagine, a chi vorrà contibuire.

Sulla vicenda dell’arena del Colosseo da ricostruire in maniera innovativa per ripristinare quella cancellata più di un secolo fa, da un lato c’è una lecita attenzione sulla tutela del monumento, con i timori di interventi sbagliati. Dall’altro sembra esserci una chiusura totale di molti addetti ai lavori, contrari a quella che definiscono un’operazione di “spettacolarizzazione” del monumento. Non si riesce proprio a trovare una sintesi?

Giuliano Volpe: “Partendo dai timori si rischia l’immobilismo. Proprio perché il Colosseo è un simbolo non possiamo trasformarlo in un feticcio. Il “così ci è stato consegnato” non significa che non possa essere modificato. Si usa sempre la parola “storicizzazione” in questi casi, ma qui si scade in una sorta di iperstoricizzazione dove non si può più intervenire su nulla, neppure nel caso di quella che per semplificare definiamo “arena”. Questa ricostruzione risarcisce l’anfiteatro di un intervento, per altro ascientifico, un vero e proprio sterro effettuato nell’Ottocento che aveva svuotato gli ambienti sotterranei delle stratigrafie.

Di fatto era il prodotto di uno scavo archeologico, sia pur condotto con i metodi dei tempi, che oggi non adotteremmo di certo. Non si capisce perché debba essere quella la situazione che resta immobilizzata. In un certo senso è un paradosso, perché da sempre, in qualsiasi sito archeologico, tutte le norme di tutela ci dicono che le strutture riportate alla luce vanno o reinterrate per poterle conservare, o vanno salvaguardate attraverso strutture di protezione, che normalmente sono delle coperture. Non si capisce perché questo non debba valere per la tutela delle strutture ipogeiche del Colosseo. In antico era coperte da strutture lignee, e quindi le riportiamo in una situazione di protezione, utilizzando ovviamente le tecnologie del terzo millennio”.

Giuliano Volpe, professore ordinario di archeologia all’università di Foggia

Non si trasformerà in un anfiteatro di Arles con corride quindi, o in son et lumière?

G.V. “Capisco le ragioni di questi timori, che non condivido. Ancora una volta si confonde la possibile utilizzazione – tutta da vedere – con l’intervento in quanto tale. Sulle utilizzazioni si ragioni, si discuta. Sullo spicchio di copertura ricostruito già oggi avvengono delle rappresentazioni, a cui ho assistito io stesso. E quello spicchio fu realizzato, con sponsorizzazione privata, ai tempi di Adriano La Regina, ossia il signore massimo della tutela, come viene sempre presentato. Guarda caso le strutture sotterranee sotto lo spicchio sono molto meglio conservate rispetto a quelle esposte alle intemperie. Non si capisce quindi perché oggi possono esserci rappresentazioni su uno spicchio e non su l’intera area, peraltro in un luogo che era nato proprio per rappresentazioni 2000 anni fa.

L’elemento essenziale per decidere cosa si possa o non si possa fare, qui come altrove, deve essere la garanzia di tutela fisica del bene. Sarà la direzione del Parco, come accade ora, con il suo comitato scientifico e il consiglio di amministrazione, a prendere le decisioni in merito, volta per volta. Spero che non ci sia un inquisitore che decida cosa è bene e cosa è male, cosa si può e non si può fare. Mi auguro che siano iniziative culturali di qualità, ma quali non sono io a deciderlo. L’unica cosa che mi sento di dire è che, tutto sommato, avrei preferito un bando più semplice, anche per non andare incontro a eccessivi costi di gestione”.

Ha visto sui social in quanti criticano questa operazione come una sorta di grandeur voluta dal ministro Franceschini, una sorta di Piramide del Louvre per Mitterand? Abbiamo un satrapo al Ministero della cultura?

G.V. “Non credo proprio. Devo dire che in questa vicenda Franceschini ha sempre tenuto un profilo molto basso. Accettò l’idea, io stesso gli presentai l’articolo di Daniele Manacorda e da allora si è preoccupato esclusivamente di trovare le risorse, demandando tutta la gestione tecnico-scientifica al Parco. E quindi sono i tecnici del Parco che hanno fatto le valutazioni, preparato il bando, deciso i criteri di valutazione…. Non vedo proprio questo atteggiamento “faraonico” da parte del ministro”.

L’accusa è che le risorse vanno solo ai grandi progetti: Colosseo, Pompei, altri ad alto impatto mediatico. Non c’è qualche fondamento, con i bilanci in mano?

G.V. “Anche questa critica la capisco, ma non la condivido fino in fondo. Ci sono fondi di diversa natura. Quel finanziamento è passato, insieme a molti altri, quando ero presidente del consiglio superiore (per i beni culturali e paesaggistici, ndr), relativi a fondi dedicati per “grandi progetti strategici”, come erano denominati. Poi ci sono tanti altri finanziamenti di altra natura su altri progetti. Personalmente anche io credo che si debba investire di più su piccoli musei locali, su aree archeologiche. Vogliamo parlare per esempio di quanto si spende per Sibari o altri siti archeologici? Eppure nessuno lo dice. Ora che si spenda una somma di questo tipo per uno dei monumenti simbolo dell’Italia, onestamente, non mi sembra uno scandalo. C’è il solito discorso del “benaltrismo” in questo Paese, su qualsiasi cosa”.

Altre critiche sono per lei. Cosa non le perdonano?

G.V. “Non credo sia solo un problema relativo al Colosseo. Non mi perdonano il fatto di essere stato, e di restare consapevolmente, sostenitore della necessità di una profonda riforma nel campo del patrimonio culturale in Italia”.

È soddisfatto di come sono andate avanti le riforme?

G.V. “Non sono pienamente soddisfatto. Avrei sperato, e continuo a sperare, che molte cose possano andare meglio, magari correggendo una serie di errori che inevitabilmente si sono compiuti. Io stesso sarei più contento di un migliore funzionamento delle soprintendenze uniche, sarei più contento di un rilancio dell’attività di tutela e di ricerca, vorrei un migliore rapporto tra il Ministero della cultura e il Ministero dell’università, che continuano a non collaborare, purtroppo, e ad avere rapporti che non esito a definire pessimi. E trovo che questa sia una cosa gravissima, mentre sarebbe necessaria una profonda attività di collaborazione e di integrazione.

Per quanto riguarda la Scuola del patrimonio penso che potrebbe fare molto meglio una serie di altre cose per le quali era stata pensata. Intendo la formazione in entrata e esternamente dei funzionari e dei dirigenti del ministero. Sul funzionamento delle direzioni regionali e i musei, questa separazione e contrapposizione con le soprintendenze è un altro aspetto che non condivido affatto”.

È pentito, in parte, di questo coinvolgimento nella riforma?

G.V. Non sono pentito, affatto, resto convinto del progetto culturale. Preferisco qualche delusione all’immobilismo di chi ha paura di qualsiasi cosa e che ha già deciso che quella cosa andrà male. È un paese che si condanna a morte se ragiona così. Mi sento profondamente riformista, di un riformismo radicale. E il riformismo è fatto da un progetto culturale, dall’applicazione e dalla sperimentazione, assieme alla capacità di verificare se una cosa è andata bene come si sperava, migliorandola, aggiustandola, correggendola…

Ora arriveranno fondi importanti, almeno speriamo, per la cultura. Ma nel campo della tutela e valorizzazione dei beni culturali sembra di assistere a un derby su ogni decisione. Siamo alla guerra tra bande?

G.V. “Con il recovery plan arriveranno tanti soldi, ma non basta mettere tanti soldi nelle cose fatte male. Servono i soldi ma serve un cambiamento dei processi, dei modi di lavorare, dei sistemi di collaborazione tra i vari pezzi dello stato e soprattutto tra il pubblico e il privato, le forze presenti nella società, l’associazionismo, i professionisti. Ho sperato, e continuo a sperare, nelle riforme nel campo del patrimonio culturale. In questa fase però si sono affievolite, per usare un’espressione rimasta famosa, la “spinta propulsiva” di quelle riforme si è fermata. E proprio oggi, più che mai, avremmo bisogno di una forte capacità di riformismo, di migliorare, e introdurre ulteriori cambiamenti. Ma se continuiamo a giocare, appunto, un derby infinito tra squadre contrapposte ideologicamente, questo non serve né al patrimonio né ai professionisti che per il patrimonio lavorano, né all’economia del paese, né ai cittadini”.

angelo.cimarosti@archaeoreporter.com

Qui il link alla pagina sul progetto del Ministero della Cultura

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