Pietre d’Oltremare – Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940) è un libro importante e scomodo. Simona Troilo, che insegna storia contemporanea all’università dell’Aquila, si occupa da tempo di tutela del patrimonio culturale con analisi che toccano spesso le questioni identitarie dello stesso. Motivazioni identitarie che, in archeologia, hanno sovente piegato (piegano ancora?) la scienza a ideologie a interessi nazionalisti, se non direttamente imperialisti.


La storia dell’archeologia italiana nel Mediterraneo nella prima metà del XX secolo è intrecciata agli interessi nazionali, sul modello del quadro di giustificazione espansionistica – territoriale, economica e culturale – che venne messo in atto anche dagli altri stati. In questo la govane nazione formatasi dopo l’Unità non fu certo la sola, e neppure la prima, basti dare un’occhiata alla formazione delle collezioni del British Museum, o dei musei di Berlino, tanto per fare due esempi. Tuttavia “le pietre e i marmi dell’oltremare italiano“, espressione della Troilo, arrivano a processi di schematicità negli anni Trenta che non hanno paragoni, inseriti nella strategia di propaganda del fascismo. Insomma, le testimonianze archeologiche della Libia, tra cui Leptis Magna, Cirene e Sabratha, vengono portate a un grado di identificazione con le dottrine del fascismo imperiale, soprattutto dalla proclamazione dell’Impero nel 1935 in poi, e l’archeologia si piega – analogamente a quella delle altre nazioni occidentali, insistiamo su questo – ai “supremi interessi” della madrepatria.
In realtà la storia inizia prima, non a caso il libro parte dal 1899, ed è un’evoluzione molto complessa, in quel triangolo mediterraneo che, oltre la Libia, vede anche le isole del Dodecaneso e Creta, dove proprio nell’ultimo anno del XIX secolo sbarca l’epigrafista Federico Halbherr. Un’isola protettorato di quattro potenze (Francia, Gran Bretagna, Italia e Russia), dove la Missione archeologica italiana si muove con indagini sul campo e inizia a elaborare metodi di lavoro, ad accumulare esperienza e a costruirsi l’idea, analoga a quella degli archeologi di altre nazioni, di come a Levante non fossero in grado di occuparsi della salvaguardia della propria eredità culturale. L’autrice lo mostra con diari di scavo, corrispondenze e documenti che ci calano in una realtà precisa: “europei” interessati a “salvare” la cultura e “gli altri” che non sono in grado farlo, non ne hanno coscienza, o ne sono addirittura avversari.
È uno schema chiaro che diventa automatismo, anche ai nostri giorni. Gli esempi sono tristemente noti: i talebani che distruggono i Budda di Bamiyan nel 2001, il saccheggio del museo di Baghdad nel 2003, l’Isis che si concentra nella distruzione di Palmira e di altre decine di siti nel 2015, tra l’orrore dell’occidente. L’introduzione di Simona Troilo, a questo proposito, è illuminante, e inserisce il dibattito nella percezione mediatica di questi fenomeni di distruzione e, per esempio, nella “inadeguatezza di strumenti pensati per combattere la perdita dei reperti senza però colpire il mercato antiquario illegale, cresciuto a dismisura grazie ai conflitti“. Oppure, ancora nella “volatilità di un’attenzione per l’antico posta di volta in volta su contesti decisivi per le politiche di sicurezza globale, a discapito di aree in cui i materiali della storia sono stati lasciati in balia degli eventi“. Insomma, come dire, se c’è il filmato su YouTube e l’area è in quel momento strategica, si alzano alti lai, ma se l’area è in quel momento periferica, tutto passa sotto silenzio. Quindi non bastano certo “I Caschi Blu della Cultura”, meritoria iniziativa italiana che ha bisogno però di una cornice normativa e di controllo internazionale ben più efficace.
La “spartizione archeologica” tra le potenze espansionistiche e coloniali, nel Mediterraneo sud-orientale, ebbe quindi una natura molteplice, varie sfumature, in cui l’Italia venne proiettata alla fine del periodo indagato attraverso la macchina del consenso del fascismo. C’è la necessità di “mettere a fuoco quel versante del discorso della civilizzazione che, escludendo gli “altri” percepiti come inferiori, assunse le forme dell’espropriazione del materiale archeologico e degli spazi in cui si trovava, trasformati in patrimonio esclusivo della nuova nazione imperiale“.
Per farlo l’autrice scava a fondo e in modo avvincente nelle dinamiche che generarono questo modo di piegare l’archelogia da cui è stato difficile liberarsi anche il tempi recenti, facendo le debite proporzioni. In questo è molto attenta a non lasciare solo al fascismo la responsabilità dell’approccio agli scavi d’oltremare. Ci ricorda come in realtà, già durante la guerra Italo-Turca siano stati proprio gli italiani a coinvolgere negli eventi bellici i siti archeologici, altro che tutela! Che non furono solo le “rovine” romane dell’impero, quelle che, notiamo, si intravvedono nel celebre francobollo fascista “Ritornando ove già fummo” (1932), a essere utilizzate come veicolo di consenso espansionista.


Per esempio, la Rodi italiana venne inserita in un “medievalismo coloniale sofisticato” attraverso a riferimenti alla Serenissima e alle crociate, sulla scorta di modelli già utilizzati da francesi e inglesi in Siria, a Cipro e a Malta. Troppi archeologi e storici calatisi, anche qui, con l’elmo e la lancia da cavaliere…
Un altro punto è la musealizzazione di luoghi da cui vennero addirittura allontanati gli abitanti storici, con le rovine “liberate” al centro degli interessi di un consumo culturale funzionale agli interessi nazionali, dalla metà degli anni Venti. Chissà perchè, con motivazioni diverse, ci ricorda un certo uso dei centri storici di alcune città d’arte italiane svuotate dei loro abitanti, a comunciare da Venezia. “Pietre d’Oltremare“, dicevamo in apertura, è un libro scomodo, perchè costringe anche l’archeologia italiana a un ripensamento di parte della sua storia, senza nulla togliere al valore dei singoli studiosi che di questa storia furono protagonisti, ma senza sconti. Nulla a che fare, questo libro, con gli avvitamenti iconoclasti della cancel culture, si tratta piuttosto di un ottimo lavoro che aiuta a mettere le cose nella giusta prospettiva. Si scava non solo “nell’Impero”, come da sottotitolo, ma anche nel nostro modo di vedere gli altri.
Troilo, S. (2021). Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero. Bari: Laterza.
Scavare nel passato, le “colpe” di Augenti per un’introduzione all’archeologia troppo ben scritta