Riceviamo, e “volentieri pubblichiamo”, come si scriveva ai tempi della carta stampata, un intervento dell’archeologo Francesco di Gennaro, lunga carriera da dirigente alle spalle. Proseguiamo così il dibattito su Giornalismo e Archeologia, che resterà sempre aperto sulle nostre pagine (il grassetto sui termini è aggiunto dalla redazione)
di Francesco di Gennaro *
Spettabile redazione,
ho potuto vedere il vostro articolo “Giornalismo e archeologia, la top 10 dei luoghi comuni” e mi congratulo per l’iniziativa, di cui si sentiva il bisogno. Aggiungerei che luoghi comuni abusati, errori grossolani e ricercate idiozie non sono patrimonio esclusivo dei cronisti ma anche di cittadini che entrano in argomento, e non solo di livello culturale così basso da “giustificarli”; ma spesso dette manifestazioni provengono proprio da categorie di addetti ai lavori. Basti pensare, in ambito accademico, alla maldestra traduzione del nome di una materia, altresì importata in Italia da università estere, l’ “Archeologia pubblica”, in un paese dove l’Archeologia è sempre stata pubblica e dove la nuova materia avrebbe potuto chiamarsi, con maggior rispetto della lingua e della logica, “Divulgazione dell’Archeologia” oppure “Archeologia partecipata (o divulgata, o spiegata)“. Per capirci, se invece che dell’Università si trattasse della televisione, si sarebbe scelto un adeguato “Archeologia per tutti”.
Mi auguro che l’interesse da voi dimostrato per l’argomento sia duraturo e contribuisca alla formazione e alla divulgazione di un linguaggio più consono all’ambito disciplinare di cui si tratta, anche perché la riflessione sui significanti può certamente aiutare una comprensione meno superficiale e occasionale dei significati della scienza archeologica.
Tra i tanti esempi di linguaggio inadeguato, va ricordato l’uso, anche da parte di professionisti -forse perché nell’errore, probabilmente partito dai venditori di appartamenti, da anni cade di regola anche il legislatore- del termine tipologia in luogo di tipo (o classe, genere ecc.); è in un certo senso come se si dicesse “Che ornitologia è?” invece di dire “Che uccello è?”.
In alcuni brevi e occasionali contributi (ndr: tutti rintracciabili in Academia.edu) ho avversato l’uso diseducativo del termine Giganti per le statue del Sinis, come l’uso indiscriminato della parola bellezza e del corrispondente indeterminato concetto o la cogente ricerca della straordinarietà, di cui attualmente abusa anche la pubblica amministrazione di settore, laddove l’extra ordinem non è un obbligo, anzi! … dobbiamo ancora comprendere, tramite la ricerca archeologica, tante cose ordinarie del passato delle nostre comunità. In proposito comunque è stato da più parti rilevato che la scoperta di morti a causa della ben nota eruzione del Vesuvio ai tempi di Tito non ha nulla di straordinario se non il fatto che per troppi anni non è stata oggetto di ordinarie sistematiche ricerche.
È poi quasi divenuto obbligatorio usare, se si tratta di Archeologia, il termine “reperto” (quando non “referto”, come pure fece qualche giornalista) in frasi tautologiche, dimenticando che reperto significa reperito quindi trovato.
Deprecabile anche la ricerca spasmodica del … record: la più antica/o, la più grande (“Ma è vero che è la più grande mai rinvenuta?” mi ripeteva un giornalista), la più ricca, la più alta e via dicendo.
Chiudo la breve e parzialissima esemplificazione osservando che perfino per la parola “scoperta”, apparentemente semplice e univoca, si imporrebbe una seria riflessione etica che consenta di distinguere il valore relativo e assoluto dell’evento stesso nel suo contesto temporale e sociale.
* Archeologo, già “Dirigente Archeologo” MiBAC
QUI UN COMMENTO del professor Giuliano Volpe alla lettera di Francesco di Gennaro
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