Non bastava che a Pompei si rendesse noto il meraviglioso thermopolium della Regio V, scoperta archeologica d’impatto sia per il grande pubblico che per gli studi archeologici sulla vita quotidiana, sul consumo alimentare e su molti altri aspetti della città investita dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., grazie alle indagini e alle analisi più avanzate, quelle a disposizione degli archeologi del XXI secolo. No, non bastava per la stampa italiana e – ve lo dobbiamo dire – anche per parte di quella estera. La notizia, per i titolisti, è stata “scoperta la bottega dello street food a Pompei”. Come titoli, in Italia, ne ho contati 53 con la parola streetfood, e sto escludendo i telegiornali. Poi ci sono almeno un’altra ventina di pezzi che non hanno street food nel titolo ma lo hanno nell’attacco. E siamo ad 80. Che fantasia, che capacità di comunicazione. Sulla questione del linguaggio giornalistico applicato all’archeologia torneremo. Ma, al di là del termine (orrendo), è proprio il messaggio che mette il contenuto in secondo piano.
A Pompei non è stato ritrovato per la prima volta “l’antenato dello street food”, ma un termopolio (se vogliamo usare il termine italiano), uno dei tanti termopolia ritrovati a Pompei, un’ottantina, in due secoli di scavi. Non era questa la novità. Non era questo il titolo. Non è questa la notizia. La notizia è che un termopolio è stato ritrovato, scavato, e indagato (anzi, lo si è iniziato ad indagare) nella Regio V di Pompei tra il 2019 e il 2020. Ossia in una delle poche aree della città scavate veramente con criteri contemporenei, adatti alle conoscenze e alle potenzialità del XXI secolo. E che grazie a questi scavi si potrà sapere molto, ma molto di più, sul consumo quotidiano di cibo, sulla dieta dei romani comuni. Che grazie alla bioarcheologia conosceremo di più su almeno due individui trovati nella bottega. E che quello che resta ancora da scavare a Pompei (e non è poco) è un patrimonio da centellinare e da preservare per le generazioni future di archeologi, che saranno dotate di metodi, tecniche e visioni sempre più avanzate e in grado di rispondere a molti più quesiti scientifici. Nulla è “mai visto prima”, ma tutto assieme, a Pompei, di fatto uno degli scavi più antichi al mondo, è degno di grande attenzione, unita alla oggettiva “bellezza” del ritrovamento. Certo, il comunicato stampa del Ministero (Mibact) per fortuna è innocente, il comunicato è chiaro e corretto, la colpa del brutto titolo è soprattutto di un lancio di agenzia e del riflesso condizionato dei titolisti italiani sempre pronti al “ah ecco un titolo già bell’e fatto.” Ma non basta.
POMPEI È MOLTO PIÙ DI UN “BRAND”
Pompei, fortunatamente, ha interrotto la caduta verticale nella tutela e nella valorizzazione scientifica, grazie certamente al Grande Progetto Pompei, attivo da sei anni, e alla competenza di archeologi a sovrintendere il sito, come l’attuale (e uscente) Massimo Osanna o a Pier Giovanni Guzzo in precedenza, a titolo di esempio. Si è capito che anche la sua immagine, e la sua valorizzazione, deve essere gestita ai massimi livelli, e grandissimi passi in avanti sono stati fatti, sia a livello di “brand” che di comunicazione e ufficio stampa. Si dovrebbe altresì avere il coraggio di fare un salto in alto ulteriore. Pompei non deve essere comunicata “a strappi”, a “grandi eventi”, a “grandi scoperte”. L’esempio è proprio quello del thermopolium della Regio V. Un lancio super il 26 dicembre, studiato per la massima efficacia con gente a casa, tra feste e lockdown, oltretutto quasi una sorta di trailer del documentario sulla Rai (peraltro ottimo, leggi qui), con le immancabili “immagini in esclusiva” e tutta la panoplia del “marketing culturale”. Certo, se ne parla, e molto, e questo non fa male. Ma ancora non si centra l’obiettivo, che è quello di coinvolgere veramente una parte del pubblico nell’archeologia, in modo attivo e non solo passivo, in modo da non mettere solo i meravigliosi affreschi con il gallo sui social per i meritati like, in modo da non dover educare questo pubblico con l’equivalenza termopolio=furgone dello street food, o altre banalità.
COINVOLGERE IL PUBBLICO NEL PROGETTO ARCHEOLOGICO
Pensate a Çatalhöyük (che non vi definisco, per amor della categoria giornalistica, “la piccola Pompei del Neolitico”), sito Unesco, e dove il grande e decennale progetto di ricerca viene di fatto svelato “in diretta” al pubblico sia degli specialisti che a quello “generico“, a cominciare dal sito internet, approfondito, “scalabile”, informativo, educativo e coinvolgente. Da noi si è scelta la tradizione, con un sito “freddo”, tradizionale. Bello in quanto Pompei, ma non certo coraggioso nel coinvolgere nella ricerca quotidiana un pubblico potenzialmente enorme. Si sceglie il metodo della presentazione, del grande comunicato stampa, delle dichiarazioni ministeriali, delle “immagini in esclusiva” alle grandi emittenti. Si sceglie di “educare” il volgo pian-piano. E poi, ovviamente, arrivano i titoli all’italiana (e anche stranieri) sul “ritrovata la bottega dello streetfood”. Colpa dei giornalisti, ovviamente, ma non solo.